SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE IV
SENTENZA 15 ottobre 2014, n. 43168
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Napoli ha confermato la condanna emessa dal Tribunale di Torre Annunziata, sezione distaccata di Castellammare di Stabia, nei confronti di C.A. , giudicato responsabile della morte del minore D.M.C. , commessa in qualità di socio, datore di lavoro e responsabile per la sicurezza della ditta Le Par s.a.s., esecutrice dei lavori di realizzazione di box auto interrati alla via (omissis).
Secondo l’accertamento condotto nei gradi di merito, nella serata del 29 maggio 2002 il minore D.M.C. , di anni nove, aveva fatto ingresso nel cantiere edile unitamente ad altri minorenni, attraverso un varco esistente tra la recinzione del medesimo ed il muro di tufo che costituiva la cinta di un contiguo condominio. In quel momento il cantiere era fermo e mentre i ragazzi si trovavano sul solaio di copertura del garage interrato il D.M. era precipitato sul piano sottostante attraverso uno dei lucernai aperti nel predetto solaio. Soccorso dai compagni, veniva trasportato dagli stessi all’esterno del cantiere. Nell’occorso il giovane riportava un importante trauma cranico, causa di un’emorragia interna che ne determinava la morte.
2. Ad avviso della Corte di appello sul C. incombeva l’obbligo di recintare in maniera completa il cantiere e coprire le aperture esistenti sul solaio dei box interrati e quindi di adottare misure idonee a scongiurare ogni possibile fattore di rischio per i lavoratori e per chiunque fosse entrato in contatto o si fosse trovato casualmente ovvero intenzionalmente all’interno del cantiere. A tal ultimo riguardo la Corte ha precisato che le misure di prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro non sono poste a tutela soltanto dei lavoratori ma si estendono anche agli estranei. L’ingresso di estranei nello specifico cantiere, data la vicinanza dello stesso alla strada pubblica e la sua insistenza in pieno centro abitato, in un quartiere molto popoloso, era una evenienza assolutamente prevedibile. Pertanto l’introduzione del D.M. all’interno del cantiere non può reputarsi fattore anomalo o eccezionale, in grado di interrompere il nesso causale con l’evento tipico.
3. Avverso tale decisione ricorre per cassazione l’imputato a mezzo del difensore di fiducia, avv. Vincenzo Maiello.
3.1. Con un primo motivo deduce violazione di legge in relazione agli artt. 40, comma 2, 41 comma 2, 43 comma 1 e 589, comma 2 cod. pen., nonché agli artt. 7, 68 e 77 d.p.r. 164/56. Rammenta l’esponente che la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la violazione delle norme precauzionali di cui al secondo comma dell’articolo 589 cod. pen. rileva ai fini dell’imputazione colposa dell’evento solo se quest’ultimo concretizza lo specifico rischio lavorativo, restando priva di connotazione causale ove essa si collochi in un contesto di rischio extra lavorativo. Nel caso in esame la inerenza della situazione pericolosa ad un contesto di rischio extra lavorativo costituisce un dato non controverso, trattandosi di ipotesi di volontario abusivo ingresso di un minore nel cantiere. La sottolineatura operata dalla Corte distrettuale della prevedibilità dell’ingresso di estranei nel cantiere è inconferente al fine dell’accollo colposo al garante di rischi prevenzionistici esistenti all’interno del cantiere. Quel che conta, prosegue l’esponente, è che l’evento verificatosi abbia concretizzato un rischio estraneo alla sfera degli obblighi prevenzionistici di competenza dell’imputato. Questi era tenuto a mettere in campo una strategia cautelare con la finalità di impedire pregiudizi alla salute dei lavoratori e di quanti, legittimamente abilitati a fare uso del cantiere, fossero entrati o presenti in esso. La disciplina della sicurezza sul lavoro non contempla nell’orizzonte della propria attitudine preventiva il compito di apprestare protezione all’integrità fisica di quanti illegittimamente si introducano nei luoghi di lavoro. Tanto vale in particolare in riferimento alla ritenuta violazione degli articoli 68 e 77 d.p.r. n. 164/56, costitutivi dell’obbligo di dotare i cupolini dei box interrati di idonee recinzioni onde evitare la caduta accidentale nel vuoto sottostante dei lavoratori e non di quanti illegittimamente si introducano nei luoghi di lavoro.
3.2. Con un secondo motivo il ricorrente lamenta la mancata risposta della Corte di appello alle puntuali censure che l’appellante aveva mosso prendendo le mosse dalle fonti dichiarative trascritte nelle pagine 7 ed 8 dell’appello redatto dall’avvocato Battolino, concernenti l’accertamento del fatto. Poiché da tali dichiarazioni emerge una realtà del tutto difforme da quella ritenuta dalla sentenza impugnata, sarebbe stato specifico onere della Corte di appello enunciare le ragioni per le quali essa non ha ritenuto di accreditare tali fonti di prova. Conclude sul punto l’esponente che l’eventuale violazione della regola di prevenzione dell’ingresso di estranei nel cantiere è stata causa dell’evento intermedio dell’entrata del ragazzo nell’area di lavoro ma non di quello finale della morte sicché l’eventuale colpa di non aver apprestato misure strumentali all’impedimento dell’ingresso di estranei in cantiere ha accresciuto il rischio di eventi lesivi, ma non è stato causa né naturalistica né giuridica dell’evento illecito.
3.3. Con un terzo motivo si lamenta vizio motivazionale per aver la Corte di appello redatto una motivazione meramente apparente in punto di verifica di un preponderante concorso di colpa della vittima, verifica richiesta dai motivi di appello.
Considerato in diritto
4. Il ricorso è infondato, nei termini di seguito precisati.
5.1. Il primo motivo coglie con puntualità un profilo essenziale della responsabilità colposa nei reati di evento, ovvero che l’evento realizzatosi concretizzi il rischio traguardato dalla regola cautelare violata (Sez. 4, n. 36857 del 23/04/2009 – dep. 22/09/2009, P.C. in proc. angolani, Rv. 244979; Sez. 4, n. 43645 del 11/10/2011 – dep. 24/11/2011, Putzu, Rv. 251930).
Si tratta di un assunto ormai patrimonio comune della dottrina e della giurisprudenza; permane, tuttavia, una certa vaghezza in merito al procedimento di individuazione del rischio verso il quale si volge la regola cautelare (si parla, da taluno, di “contesto di strutturale incertezza sul contenuto delle regole cautelari”), tanto che sovente viene paventato il pericolo di una identificazione dello stesso alla luce di quanto concretamente verificatosi; operazione destinata a sfociare in un giudizio che mantiene un problematico rapporto con il principio della responsabilità per fatto proprio.
La critica operata dal ricorrente alla decisione impugnata si muove innanzitutto lungo questo crinale: si afferma che le regole cautelari la cui violazione è stata ascritta al C. non prendono in esame il “rischio extralavorativo”, determinatosi per effetto del volontario abusivo ingresso nel cantiere di un soggetto a questo estraneo, sicché l’evento verificatosi non concretizza il rischio a fronteggiare il quale era posto il dovere di sicurezza in capo al C. , nelle qualità di socio, datore di lavoro e responsabile per la sicurezza della ditta Le Par s.a.s..
Come accade sovente in tema di responsabilità per colpa, ci si trova di fronte all’intersecarsi di più piani concettuali, che vale la pena tentare di identificare.
Quando si interroga in merito alla cerchia dei destinatari della tutela prevenzionistica che il datore di lavoro deve apprestare, la giurisprudenza tende a includere in essa anche i soggetti estranei alla categoria dei lavoratori. Si afferma, così, che il datore di lavoro ha l’obbligo di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro per tutti i soggetti che prestano la loro opera nell’impresa, senza distinguere tra lavoratori subordinati e persone estranee all’ambito imprenditoriale (Sez. 4, n. 37840 del 01/07/2009 – dep. 25/09/2009, Vecchi e altro, Rv. 245274); che in tema di omicidio colposo ricorre l’aggravante della violazione di norme antinfortunistiche anche quando la vittima è persona estranea all’impresa, in quanto l’imprenditore assume una posizione di garanzia in ordine alla sicurezza degli impianti non solo nei confronti dei lavoratori subordinati o dei soggetti a questi equiparati, ma altresì nei riguardi di tutti coloro che possono comunque venire a contatto o trovarsi ad operare nell’area della loro operatività (Sez. 4, n. 10842 del 07/02/2008 – dep. 11/03/2008, Caturano e altro, Rv. 239402); che in materia di infortuni sul lavoro, l’imprenditore assume la posizione di garante della sicurezza degli impianti non solo nei confronti dei lavoratori subordinati e dei soggetti a questi equiparati, ma anche nei confronti delle persone che – pur estranee all’ambito imprenditoriale – vengano comunque ad operare nel campo funzionale dell’imprenditore medesimo (Sez. 4, n. 6348 del 18/01/2007 – dep. 15/02/2007, P.C. proc. Chiarini, Rv. 236105).
La necessità di rinvenire un criterio di delimitazione della responsabilità del datore di lavoro pare essere presente a tale indirizzo e soddisfatta attraverso la richiesta dell’esistenza di una particolare relazione tra l’estraneo e l’organizzazione di impresa (si richiese che si tratti di soggetti ora svolgenti comunque prestazioni lavorative, ora a vario titolo funzionalmente collegati a quell’organizzazione, quali fornitori, clienti ecc.).
Non manca un filone interpretativo che identifica i destinatari della tutela senza limitazione alcuna. Si puntualizza che, in materia di prevenzione infortuni, l’art. 1 d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, espressamente richiamato dal capo 1 d.P.R. 7 gennaio 1956 n. 164 (ed ora trasfuso nell’art. 2, co. 4 del d.lgs. n. 81/2008), allorquando parla di “lavoratori subordinati e ad essi equiparati” non intende individuare in costoro i soli beneficiari della normativa antinfortunistica, ma ha la finalità di definire l’ambito di applicazione di detta normativa, ossia di stabilire in via generale quali siano le attività assoggettate all’osservanza di essa, salvo, poi, nel successivo art. 2, escluderne talune in ragione del loro oggetto, perché disciplinate da appositi provvedimenti. Pertanto, qualora sia accertato che ad una determinata attività siano addetti lavoratori subordinati o soggetti a questi equiparati, ex art. 3, comma secondo, dello stesso d.P.R. n. 547 del 1955, non occorre altro per ritenere obbligato chi esercita, dirige o sovrintende all’attività medesima ad attuare le misure di sicurezza previste dai citati d.P.R. 547 del 1955 e 164 del 1956; obbligo che prescinde completamente dalla individuazione di coloro nei cui confronti si rivolge la tutela approntata dal legislatore. Ne consegue che, ove un infortunio si verifichi per inosservanza degli obblighi di sicurezza normativamente imposti, tale inosservanza non potrà non far carico, a titolo di colpa specifica, ex art. 43 cod. pen. e, quindi, di circostanza aggravante ex art. 589, comma secondo, e 590, comma terzo, stesso codice, su chi detti obblighi avrebbe dovuto rispettare, poco importando che ad infortunarsi sia stato un lavoratore subordinato, un soggetto a questi equiparato o, addirittura, una persona estranea all’ambito imprenditoriale, purché sia ravvisabile il nesso causale con l’accertata violazione (Sez. 4, n. 2383 del 10/11/2005 – dep. 20/01/2006, Losappio ed altri, Rv. 232916; si veda anche Sez. 4, n. 38991 del 10/06/2010 – dep. 04/11/2010, Quaglierini e altri, Rv. 248850, che puntualizza la natura di posizione di controllo del datore di lavoro, ovvero di soggetto tenuto a dominare una fonte di pericolo per la tutela di beni da questa pregiudicabili, quali che siano i titolari; per la responsabilità datoriale in caso di decesso della moglie di un operaio per patologie connesse alla esposizioni del marito a polveri di amianto cfr. Sez. 4, n. 27975 del 15/05/2003 – dep. 01/07/2003, Eva, Rv. 226011).
In questa prospettiva il limite della responsabilità datoriale viene individuato nell’ambito della causalità, sostenendosi che il fatto è commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro solo che sussista tra siffatta violazione e l’evento dannoso un legame causale, il quale non può ritenersi escluso solo perché il soggetto colpito da tale evento non sia un lavoratore dipendente (o soggetto equiparato) dell’impresa obbligata al rispetto di dette norme ma un estraneo all’attività ed all’ambiente di lavoro, purché la presenza di tale soggetto nel luogo e nel momento dell’infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l’evento e la condotta inosservante e purché, ovviamente, la norma violata miri a prevenire incidenti come quello in effetti verificatosi (Sez. 4, n. 11360 del 10/11/2005 – dep. 31/03/2006, P.M. in proc. Sartori ed altri, Rv. 233662).
5.2. Orbene, comune ad entrambi gli indirizzi è la tesi della riconducibilità degli estranei alla compagine aziendale al novero dei soggetti destinatari della tutela apprestata dalla normativa prevenzionistica.
Questa Corte ritiene di condividere e di ribadire siffatto assunto, sia per le ragioni esplicitate dalla sentenza in causa Losappio, sia perché l’esame delle norme prevenzionistiche sembra evidenziare che esse possono essere classificate in almeno due tipologie. Talune impongono misure di carattere oggettivo, ovvero misure i cui contenuti risultano definiti a prescindere da qualsivoglia riferimento ad un particolare destinatario. Così, i requisiti previsti dall’allegato V al d.lgs. n. 81/2008 per le attrezzature di lavoro devono essere osservati solo che si tratti di strumenti dell’attività lavorativa e l’eventuale messa in esercizio di macchinari non conformi non esonera da responsabilità il datore di lavoro solo perché l’infortunato non è un lavoratore: la condotta doverosa non è descritta in modo da implicare una delimitazione alle offese ai soli lavoratori. Al datore di lavoro si chiede un adempimento che ha valore per chiunque venga a contatto con la macchina in questione. Può trattarsi – e per lo più si tratta – di lavoratori; ma può ben trattarsi di persone estranee all’apparato organizzativo che per ragioni varie vengono a trovarsi nello spazio di azione degli organi della macchina.
Nella giurisprudenza si rinvengono puntuali affermazioni in proposito: ad esempio, si è affermato che “in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la disposizione di cui all’art. 72 del d.P.R. n. 547 del 1955 – che prevede che gli organi pericolosi delle macchine devono essere provvisti di un dispositivo di blocco collegato con i congegni di messa in moto e di movimento della macchina – intende evitare il rischio che chiunque, addetto o non alle macchine, dipendente o estraneo, per qualunque motivo, possa venire a contatto con le parti pericolose del congegno e riportare danni: la norma dunque non ha come specifico destinatario l’operaio addetto, ma è rivolta alla tutela di chiunque (Sez. 4, n. 14175 del 08/11/2005 – dep. 21/04/2006, Zucchiati, Rv. 233949).
A diverse conclusioni deve giungersi laddove la misura prevenzionistica abbia carattere per così dire soggettivo; ovvero si indirizzi ad una specifica tipologia di soggetti. L’obbligo di sorveglianza sanitaria (artt. 41 e ss. D.lgs. n. 81/2008) è esplicitamente posto a beneficio del lavoratore; ma è l’insieme della disciplina che porta ad escludere che esso si ponga anche a beneficio del soggetto estraneo all’azienda (salvo che questi non venga a trovarsi nella situazione oggettiva caratteristica del lavoratore).
Se ne può derivare che talune regole prevenzionistiche sono dettate a tutela di qualsiasi soggetto che venga a contatto con la fonte di pericolo sulla quale il datore di lavoro ha poteri di gestione; altre sono poste a beneficio precipuo del lavoratore, inteso in senso formale e sostanziale. Nel primo caso, le ragioni per le quali si determina il contatto tra la fonte di pericolo e l’estraneo è in linea di massima – salvo quanto si dirà appresso a riguardo della volontaria esposizione a rischio – non incide sulla causalità colposa, proprio perché – per usare altra terminologia corrente nella dottrina – la sfera di competenza del titolare dell’obbligo è definita su base eminentemente oggettiva, ovvero in relazione alla fonte di pericolo.
Questa prima conclusione permette di puntualizzare che la qualità di extraneus, nel senso dianzi assunto, non è di per sé incompatibile con l’esistenza di un protettivo dovere di sicurezza datoriale. Nel caso di specie, l’analisi delle precauzioni inosservate dal C. (“recingere in modo adeguato il cantiere”, “recingere le aperture nel solaio di copertura del garage in modo da evitare la caduta accidentale nel vuoto sottostante”) evidenzia che si tratta di regole che impongono misure oggettive, che valgono ad eliminare i rischi derivanti dalle fonti di pericolo rappresentate dal cantiere nella sua interezza e dai cupolini in particolare, chiunque venga a trovarsi ad esse esposto. Su tale aspetto si dovrà tornare in seguito.
5.3. Non vi è dubbio, intanto, che la circostanza che il minore si sia portato senza autorizzazione del titolare del cantiere all’interno del medesimo debba trovare adeguata collocazione.
Può essere utile rimarcare che l’ingresso abusivo dell’estraneo nell’area di cantiere assume rilevanza ai fini della soluzione del problema proposto dalla responsabilità derivante da violazione prevenzionistica non tanto in ragione del carattere clandestino dell’ingresso quanto perché quell’abusività segnala la volontaria esposizione a pericolo della vittima. L’accesso ai luoghi di lavoro è comunemente precluso a chi non vi abbia una ragione connessa alle attività che vi si esercitano; il relativo scrutinio è espletato da chi abbia poteri di interdizione. Quel che rileva non è l’eventuale inconsapevole violazione dell’interdizione (che nulla toglie al carattere abusivo della presenza sul luogo) ma il volontario ingresso nel luogo di lavoro, per ciò che esso implica in termini di esposizione a pericolo.
Ne deriva che la condotta di chi si introduca volontariamente, invito domino, nel luogo di lavoro appartiene alla più ampia classe delle condotte di esposizione volontaria a pericolo.
Orbene, per poter parlare di “volontaria esposizione a pericolo” è necessario che il soggetto sia pienamente consapevole della esistenza e della natura del pericolo; diversamente, è ovvio, non sarebbe concepibile una volontarietà del comportamento.
Tra le non molte decisioni di legittimità censibili in argomento il ricorrente ne segnala alcune, che è utile rammentare brevemente.
In un’occasione – si trattava di lavoratore che era precipitato nel vano destinato ad alloggiare l’ascensore di un edificio in costruzione, dopo essersi introdotto abusivamente nel cantiere fuori dell’orario di lavoro, aver rimosso la rudimentale staccionata predisposta nell’attesa di un presidio più adeguato – è stato affermato il principio che non può aversi responsabilità colposa datoriale quando il comportamento della vittima sia consistita nella consapevole violazione delle cautele disposte allo specifico scopo di prevenire la presenza di persone in un’area tipicamente ed inevitabilmente pericolosa, introducendosi arbitrariamente nel fondo; la ragione di ciò è stata colta nella interruzione del nesso causale tra l’evento ed ogni violazione di prescrizioni antinfortunistiche eventualmente riferibile all’interessato quale datore di lavoro. Per la Corte, la violazione delle disposizioni imposte dai direttore del cantiere fu consapevole e volontaria ancorché non mirata alla produzione dell’evento e concretizzò un fattore di per sé idoneo ed efficiente alla produzione dell’evento (Sez. 4, n. 44206 del 25/09/2001 – dep. 10/12/2001, Intrevado E, Rv. 221149).
In altra vicenda era stato accertato che il proprietario dell’area l’aveva delimitata adeguatamente, sicché l’introduzione di notte in una zona privata provvista di recinzione e di cartelli di divieto era stata reputata eccezionale ed imprevedibile, sì da configurabile causa idonea ad interrompere il nesso di causalità (Sez. 4, n. 11311 del 07/05/1985 – dep. 25/11/1985, Bernardi, Rv. 171215).
Si tratta di decisioni che si muovono nell’alveo della tradizione giurisprudenziale che riconosce l’esclusione della causalità penale per effetto di un fattore sopravveniente che sia eccezionale, atipico, anomalo, abnorme, imprevedibile, secondo un lessico vario ma non esprimente concetti diversi da quelli che si rifanno, sul piano teorico, alla concezione della c.d. causalità umana. Ad essa si rifà con coerenza e pieno ossequio anche la sentenza in esame, per la quale l’evento non risultava imprevedibile poiché “la presenza del cantiere in pieno centro cittadino, in un’area densamente abitata, in prossimità di una strada e in adiacenza ad un condominio residenziale, rendeva assolutamente prevedibile che dei ragazzini si introducessero all’interno dell’area”.
6.1. Sempre muovendosi sul terreno del nesso causale, un più recente indirizzo giurisprudenziale opta per un criterio che innova tale tradizione, incentrato sulla riconducibilità dell’evento all’area di rischio governata dal garante. È esplicitamente ad esso che si richiama il ricorrente. L’assunto principale di questa tesi, consonante a parte della dottrina, è che il datore di lavoro possa essere chiamato a rispondere dell’evento solo se “la situazione pericolosa nella quale si è verificato l’incidente… è riferibile al contesto della prestazione lavorativa” (Sez. 4, n. 49821 del 23/11/2012 – dep. 21/12/2012, Lovison e altri, Rv. 254094).
Siffatta ricostruzione ha il merito di mettere in luce le criticità insite nel criterio dell’abnormità del comportamento della vittima che ora viene inteso come comportamento che, per la sua stranezza ed imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all’applicazione della misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro – e tale non viene ritenuto il comportamento del lavoratore che abbia compiuto un’operazione comunque rientrante, oltre che nelle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli -; ora il comportamento imprudente che sia consistito in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (Sez. 4, n. 7267 del 10/11/2009 – dep. 23/02/2010, Iglina e altri, Rv. 246695); ora in un contegno esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute e come tale, dunque, del tutto imprevedibile (Sez. 4, n. 15009 del 17/02/2009 – dep. 07/04/2009, Liberali e altro, Rv. 243208).
Come evidenziano anche solo le poche massime appena riportate, esemplificative di un orientamento ben più che consolidato, l’abnormità del comportamento si predica in presenza dell’imprevedibilità della condotta tenuta dal lavoratore; imprevedibilità che non può mai ritenersi – e non è mai ritenuta -quando la condotta del lavoratore è tenuta nell’espletamento, sia pure imperito, imprudente o negligente, delle mansioni assegnategli. E ciò perché la prevedibilità di uno scostamento del lavoratore dagli standards di piena prudenza, diligenza e perizia è ordinariamente presente, perché quello scostamento è evenienza immanente nella stessa organizzazione del lavoro. Ciò non può significare l’avallo di un qualche automatismo, che porti a svuotare di reale incidenza la categoria del comportamento abnorme. Piuttosto, simili precisazioni conducono ad evidenziare la necessità che vengano portate alla luce quelle circostanze peculiari – interne o esterne al processo di lavoro – che connotano la condotta dell’infortunato in modo che, per dirla con la più recente ricostruzione, “essa si collochi in qualche guisa al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso. Tale comportamento è interruttivo (per restare al lessico tradizionale) non perché eccezionale ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare” (Sez. 4, n. 49821 del 23/11/2012 – dep. 21/12/2012, Lovison e altri, Rv. 254094).
6.2. La tesi appare persuasiva. Ma, in ragione dell’uso che ne fa il ricorrente, bisognevole di una precisazione: l’interpretazione della quale la sentenza Lovison è capofila non pone su un piano generale la distinzione tra rischio lavorativo e rischio extra lavorativo ma evidenzia che, nello specifico (si trattava di vittima-lavoratore che però aveva agito fuori dal contesto lavorativo) l’area di rischio governata dall’imputato, caratterizzata dal contesto lavorativo, non veniva in considerazione nonostante la qualità di lavoratore della vittima. È quindi all’area di rischio, volta a volta connotata, che deve guardarsi e non ad una aprioristica omnivalente alternativa rischio lavorativo/extralavorativo.
Inoltre, se vuole sfuggire ad una pericolosa genericità, foriera di arbitrarietà, la identificazione del preciso perimetro dell’area di rischio non può che essere condotta alla luce dell’analisi delle regole cautelari pertinenti al caso. L’attenzione torna quindi sulla natura della regola prevenzionistica, in ragione della quale si potrà comprendere non solo se l’area di rischio al cui governo è posto il datore di lavoro comprende, oltre a quella dei lavoratori, anche la tutela dei non lavoratori ma anche se essa conosca specifiche condizioni per questa seconda o valga, ad esempio e per stare al caso in esame, anche ove si tratti di “volontaria” esposizione al pericolo.
Traendo da quanto sinora scritto il principio di diritto corrispondente, deve affermarsi che “in materia di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro, beneficiario della tutela è anche il terzo estraneo all’organizzazione dei lavori, sicché dell’infortunio che sia occorso all’extraneus risponde il debitore di sicurezza, sempre che l’infortunio rientri nell’area di rischio quale definita dalla regola cautelare violata e che il terzo non abbia posto in essere un comportamento di volontaria esposizione a rischio”.
6.3. Se sulla scorta di simili premesse si considerano le violazioni ascritte al C. , ci si avvede che l’obbligo di recingere l’area di cantiere (anche quando se ne debba affermare la derivazione, al tempo, solo da regola sociale, come fatto dal difensore nella discussione dinanzi a questa Corte per formulare la non condivisibile affermazione della insussistenza in concreto di tale obbligo per la non raggiungibilità del lato dal quale i minori fecero ingresso: si veda infra, par. 7) ha una duplice funzione: quella di evitare che si creino condizioni di ulteriore pericolo in cantiere per effetto di fattori interferenti provenienti dall’esterno ed altresì quella di evitare che estranei possano venirsi a trovare a contatto con la fonte di pericolo “generale” costituita dal cantiere e con quelle numerose particolari in esso esistenti. Ne consegue che l’area di rischio che il datore di lavoro deve necessariamente governare comprende anche il rischio dell’ingresso abusivo di estranei nel cantiere (diversamente non sarebbe richiesto un ostacolo fisico, quale la recinzione, evidentemente previsto per la ritenuta inidoneità allo scopo delle sole segnalazioni interdittive). Il rischio che si vuole fronteggiare è anche quello cui è esposto l’estraneo (come d’altronde evidenziato già nella sentenza Intrevado).
Altrettanto dicasi per l’obbligo di dotare di idonee protezioni le aperture sul solaio del garage; si tratta di una misura precauzionale che non si indirizza unicamente alla salute dei lavoratori bensì di quanti possono trovarsi a percorrere il predetto solaio.
Nell’uno come nell’altro caso il comportamento del quivis de populo ha assorbente valenza giuridica, rispetto all’assente o inadeguata cautela, solo se si concretizza nella volontaria esposizione a quel rischio.
Ora, per venire finalmente alle conclusioni da trarsi nel caso che occupa, non può certo parlarsi di volontarietà di esposizione a rischio da parte di un soggetto che, perché minore, non è in possesso della necessaria consapevolezza della fonte di pericolo costituita da un cantiere e dalle aperture nel solaio; in tal caso la volontarietà dell’ingresso nel sito ed il transito in esso non corrisponde ad una volontaria esposizione a pericolo.
Non si ignora che talune risalenti e minoritarie sentenze hanno sostenuto che “le norme antinfortunistiche sono poste a tutela non di qualsivoglia persona che si trovi fisicamente presente sul luogo ove si svolge l’attività lavorativa, magari per curiosità o addirittura abusivamente, ma di coloro che versino quanto meno in una situazione analoga a quella dei lavoratori e che si siano introdotti sul luogo del lavoro per qualsiasi ragione purché a questo connessa (cfr. Sez. 4, n. 7924 del 05/01/1999 – dep. 18/06/1999, Caldarelli, Rv. 214246: nella specie si trattava dell’ingresso abusivo di tre ragazzi in un’area recintata ma priva di una ulteriore delimitazione della vasca costituente fonte di pericolo). Ma per l’insieme delle ragioni si qui esposte non pare tesi condivisibile.
Tanto implica l’esistenza nel nesso causale tra la condotta trasgressiva accertata in capo al C. e l’evento verificatosi, anche ponendosi nella prospettiva dell’indirizzo tracciato dalla decisione in causa Lovison.
Né può affermarsi fondatamente, come vorrebbe il ricorrente con il secondo motivo di ricorso, che siffatta trasgressione sarebbe unicamente causa dell’evento intermedio dell’entrata del ragazzo nell’area di lavoro ma non di quello finale della morte, della quale avrebbe soltanto accresciuto il rischio. Invero, in tal modo si adotta una posizione teorica (quella dell’aumento del rischio) che dalla sentenza delle sezioni unite in causa Franzese in avanti (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002 – dep. 11/09/2002, Franzese, Rv. 222138) è stata recisamente rifiutata dalla giurisprudenza di legittimità (da ultimo si veda sez. 4, sent. n. 25210 del 14.2.2014, Turi, n.m.; Sez. 4, n. 23944 del 17/04/2013 – dep. 03/06/2013, R.C., Corrado e altri, Rv. 255462).
7. Il secondo motivo contiene una critica anche alla valutazione della prova, perché la Corte di appello non avrebbe enunciato le ragioni per le quali ha ritenuto di non dare credito alle fonti di prova addotte dalla difesa in merito alla ricostruzione dell’accaduto. Il punctum dolens risulta essere quello della effettiva consistenza fisica della recinzione del cantiere. Secondo la difesa l’accesso al cantiere era oltremodo difficoltoso perché la consulenza tecnica e la deposizione del Di Lallo ed altresì le deposizioni dei testi Paglia e Russo (agenti di P.S.) individuavano l’esistenza nel muro della proprietà contigua al cantiere di un foro posto all’altezza di mt. 1,50 dal piano stradale e dell’ampiezza da dieci a quaranta centimetri, dal quale si passava sulla sommità di un muro largo appena venti centimetri, alla cui sinistra vi era il cantiere con un dislivello di 2,50 metri (mentre alla destra vi era uno strapiombo di sei metri) che il minore doveva aver superato con un balzo; inoltre la recinzione del cantiere era totale.
Ora, su un simile tema la Corte di Appello si è a lungo intrattenuta osservando che:
– i giovani che erano entrati nel cantiere con la vittima hanno riferito che l’ingresso era avvenuto “attraverso un varco esistente tra la recinzione ed il muro di tufo del condominio, oltre il quale non vi erano altre protezioni e si accedeva direttamente al cantiere”;
– non solo i giovani erano entrati attraverso tale percorso ma vi erano anche usciti, il fratello della vittima addirittura portando con sé il corpo del congiunto, senza l’ausilio di soccorritori qualificati o attrezzatura di un qualche tipo;
– il cantiere era recintato solo su tre lati da un muretto sormontato da ringhiera metallica; i giovani erano passati sul quarto lato, in un punto in cui il muro era privo di grate;
– le fotografie eseguite il 29.5.2002 rappresentavano condizioni di luogo compatibili con quanto riferito dai minori;
– le misurazioni offerte dalla difesa non trovavano riscontro in atti.
Ne consegue che la Corte distrettuale ha valutato gli elementi difensivi, ritenendoli smentiti dalle deposizioni dei giovani, a loro volta confortate e non negate dalle condizioni dei luoghi, quali direttamente esaminate attraverso la documentazione fotografica acquisita agli atti del processo. Non è rinvenibile alcuna manifesta illogicità nella motivazione resa dal giudice territoriale.
8. Parimenti infondato è il terzo motivo. Con esso si lamenta la mancanza di motivazione in ordine ad un “preponderante concorso di colpa della vittima”, nonostante con i motivi di appello si fosse chiesto il riconoscimento di un concorso di colpa. Invero, l’esame dell’atto di appello a firma dell’avv. Maiello lascia emergere l’affermazione secondo la quale “l’istruttoria dibattimentale ha provato… il preponderante contributo eziologico apportato dalla vittima con la propria condotta contra legem. In una situazione simile, la Corte adita non potrà non riconoscer la sussistenza di un rilevante concorso di cause indipendenti nella determinazione della morte del povero D.M.C. “. L’atto di gravame a firma dell’avv. Bartolino, dal canto suo, faceva menzione unicamente della mancata considerazione, da parte del giudice di primo grado, di eventuali responsabilità del coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione o del direttore dei lavori nonché dei genitori del minore e del proprietario del muro.
Orbene, l’ambigua espressione preponderante contributo eziologico può alludere ad un assorbente rilievo causale della condotta del minore; in tal caso il tema è stato ampiamente esplicato dalla Corte di Appello con le sue argomentazioni in merito alla non riscontrabilità dell’interruzione del nesso causale tra la condotta del C. e l’evento, per effetto della causa sopravvenuta rappresentata dalla condotta del piccolo D.M. . Oppure può alludere ad un concorso di cause indipendenti, quale disciplinato dall’art. 41, co. 1 cod. pen. In tal caso l’obbligo della Corte distrettuale sarebbe stato quello di affermare o negare il contributo colposo della vittima, ai fini della quantificazione della responsabilità dell’imputato, tanto agli effetti penali che a quelli civili. La relativa valutazione è insindacabile in sede di legittimità, ove assistita da adeguata motivazione. Orbene, al riguardo la Corte di Appello ha esplicitamente asserito che “la valutazione del grado di responsabilità del C. non può prescindere dalla valutazione complessiva della condotta ascritta all’imputato e delle violazioni di cui si è reso responsabile. Se è innegabile che la vittima si introdusse all’interno del cantiere abusivamente, è altrettanto innegabile che la mancata copertura o protezione dei lucernai… costituisce una grave violazione da parte dell’imputato in grado di palesare un elevato grado di colpa”. In tali affermazioni vi è la esplicazione del giudizio di subvalenza della condotta del minore, del tutto scevra da vizi censurabili in questa sede.
9. In conclusione il ricorso deve essere rigettato; il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese in favore delle parti civili; spese che si liquidano in Euro 3.000,00, oltre accessori come per legge.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese in favore delle parti civili che liquida in Euro 3.000,00 oltre accessori come per legge.
Leave a Reply