SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I
SENTENZA 8 settembre 2014, n. 37246
Ritenuto in fatto
- Con sentenza del 29 giugno 2011 il G.u.p. del Tribunale di Novara, all’esito del giudizio abbreviato, ha dichiarato M.A. colpevole del reato di omicidio in danno della madre R.N. , deceduta per asfissia primitiva, meccanica, violenta da occlusione estrinseca delle vie respiratorie, mediante soffocazione e strangolamento, e, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle contestate aggravanti di avere commesso il fatto in danno dell’ascendente e profittando di circostanze di persona, relative all’età e alle condizioni fisiche e psichiche della vittima, tali da ostacolarne la privata difesa, e con la riduzione per il rito, l’ha condannato alla pena di anni quattordici di reclusione, con interdizione perpetua dai pubblici uffici e legale durante l’esecuzione della pena.
- Con sentenza del 16 giugno 2012 la Corte di assise di appello di Torino, in parziale riforma della sentenza di primo grado, appellata dall’imputato, valutate le già riconosciute circostanze attenuanti generiche in rapporto di prevalenza sulle aggravanti, ha rideterminato la pena in anni dieci di reclusione.
- La Corte, che richiamava la vicenda processuale e illustrava le ragioni di doglianza svolte dall’imputato con i motivi di appello, dando conto della perizia collegiale in ambito psichiatrico disposta nel giudizio di appello, riteneva non condivisibile la tesi difensiva, alla cui stregua il fatto materiale (non contestato nel suo accadimento e nella sua riconducibilità all’appellante) doveva essere qualificato come omicidio del consenziente previsto e punito dall’art. 579 cod. pen., e non come omicidio volontario ai sensi del contestato art. 575 cod. pen., per avere l’imputato agito sulla base della erronea convinzione soggettiva che la volontà della madre che gli era parso di cogliere avesse accettato l’atto che il medesimo aveva infine compiuto.
Secondo la Corte, ostava all’accoglimento della tesi difensiva il principio di diritto che collegava l’omicidio del consenziente al consenso serio, esplicito, non equivoco e perdurante anche fino al momento della commissione del fatto da parte del colpevole, dovendo riconoscersi assoluta prevalenza al diritto personalissimo alla vita, che non attribuiva a terzi il potere di disporre anche in base alla propria percezione della sua qualità.
Nel caso di specie, era determinante il rilievo che la consulenza medico-legale aveva evidenziato che la vittima, compatibilmente con le sue scadenti condizioni fisiche, aveva attivamente reagito all’azione asfittica e di strozzamento posta in essere in suo danno, riportando ecchimosi e ferite agli arti superiori, e tale reazione accanita e disperata, protrattasi per quattro – cinque minuti, che non poteva essere ignorata dall’imputato, attestava una certa revoca di ogni eventuale forma di consenso già espressa e la conseguente esclusione della prestazione di un consenso suscettibile di acquistare valenza al fine della configurabilità della reclamata ipotesi delittuosa.
Era, secondo la Corte, del tutto condivisibile anche la considerazione della sentenza impugnata che aveva rimarcato che le frasi pronunciate dalla vittima in ordine al suo desiderio di morire, riferite dalla nuora, F.A. , non esprimevano lucidamente l’esternazione di una seria e meditata volontà di ricevere la morte e nel modo crudele riservatole, ponendosi come deprecazioni rappresentative di abbattimento, tristezza e scoramento, come tali rilevabili da qualunque interlocutore avveduto, specie se provenienti dalla madre malata, della quale, affidata alle sue cure, l’imputato conosceva i modi di dire e le abitudini.
3.1. La Corte, che illustrava le ragioni, tratte dalle deduzioni difensive, dalla consulenza di parte e dalla deposizione del medico di base, dott. B. , che avevano fondato la decisione di disporre perizia collegiale in ambito psichiatrico perché assolutamente necessaria, rilevava, anche richiamando gli esiti dei test, cui il periziando era stato sottoposto, che lo stesso non era affetto, al tempo del fatto, da ‘depressione maggiore o endogena’, ma era solo portatore di ‘sintomatologia depressiva reattiva alla situazione contingente’, non avente, ai fini psichiatrico-forensi, valore di infermità incidente sulla imputabilità, non modificando la sua capacità di autodeterminazione.
Anche il quoziente intellettivo residuo, rispetto al rilevato deterioramento intellettivo superiore al limite ritenuto non patologico, era, secondo i periti, nella media. Né l’ambivalenza caratterizzante il rapporto dell’imputato con la madre, pur significativa di uno stato di turbamento psichico, concretava infermità mentale, rientrando piuttosto tra gli stati emotivi e passionali che avevano portato come reazione a corto circuito al matricidio.
I periti, ricordava ancora la Corte, avevano evidenziato in udienza che le lesioni patite dalla vittima, riprodotte in foto, rispecchiavano collera e rabbia, non il desiderio di uccidere senza far soffrire e che la convinzione dell’imputato di avere ucciso per eutanasia era solo l’esito di una forma di autoconvincimento costruito a posteriori per un meccanismo di autoassoluzione.
3.2. la Corte di merito rigettava anche il motivo di gravame relativo al contestato omesso riconoscimento dell’attenuante del risarcimento del danno, fondata sull’avvenuto pagamento da parte del ricorrente in favore dei suoi due figli, unici nipoti della vittima, previa sua rinuncia alla eredità, della somma di Euro ventiduemila per ciascuno.
Secondo la Corte, la rinuncia alla eredità non aveva efficacia risarcitoria per essere priva di effetto dal punto di vista economico, in presenza di una condizione di indegnità a succedere, e la somma erogata a titolo risarcitorio, la valutazione della cui corrispondenza al danno spettava al giudice, era stata ritenuta in primo grado inidonea con valutazione equitativa non carente, non arbitraria, correlata alla peculiare gravità del delitto e sottratta a censura per difetto di motivazione.
3.3. Sul piano sanzionatorio era, invece, fondata la richiesta di valutare prevalenti le già concesse attenuanti generiche sulle aggravanti contestate, avendo riguardo alla gravità del fatto e alla personalità dell’imputato, ampiamente descritta, che faceva apparire affievolita la sua capacità a delinquere.
- Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione, per mezzo del proprio difensore di fiducia, l’imputato M. , che ne chiede l’annullamento sulla base di due motivi, alla cui illustrazione premette in fatto di non contestare la puntuale ricostruzione dello sviluppo dell’azione operata in sede di merito e premette, altresì, il richiamo alle contestazioni mosse in detta sede con riguardo alla qualificazione giuridica del fatto da ricondurre alla fattispecie di cui all’art. 579 cod. pen. per la putatività del consenso della genitrice e al riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6, cod. pen., dando atto del già intervenuto accoglimento della sola censura attinente alla dosimetria della sanzione.
4.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia mancanza e contraddittorietà della motivazione relativamente alla configurabilità dell’errore, rilevante ai sensi dell’art. 59 cod. pen., in cui esso ricorrente è incorso nel valutare le richieste più volte profferite dalla madre, intese come manifestazione da parte della stessa di un consenso ‘esplicito, convincente, irretrattabile’ a procurarne la morte.
Secondo il ricorrente, la Corte di merito, valutando tale tematica, è incorsa nel denunciato vizio, poiché ha ritenuto che la prova del consenso non poteva trarsi dalle generiche invocazioni della vittima, volte alla cessazione della propria sofferenza, o dalle sue deprecazioni, non estranee alle persone anziane malate e scoraggiate, evocative di modelli eutanasici, e ha valorizzato il comportamento reattivo della vittima, registrato dagli esiti degli accertamenti medico-legali, all’azione non breve di soffocamento, da valutarsi per l’agente come revoca del presunto consenso.
In tal modo, ad avviso del ricorrente, la Corte ha ritenuto di considerare la possibilità di interpretare gli eventi sulla base di una, solo presunta, sua capacità di decodificazione del linguaggio della vittima, e si è riferita a uno sviluppo logico degli eventi avendo riguardo a un soggetto ‘normalmente avveduto’, in contraddizione logica con l’analisi, pure svolta, della sua personalità, come emersa dall’accertamento peritale disposto nel giudizio di appello per valutare la sua capacità di intendere e di volere al momento del fatto e di stare in giudizio.
La perizia svolta, che ha escluso vizi della sfera psichica rilevanti sul piano penalistico, ha tuttavia evidenziato non solo che esso ricorrente è ipodotato per un coefficiente di deterioramento intellettivo superiore al limite ritenuto non patologico (pur senza assumere valore di infermità mentale), ma anche che, all’epoca dei fatti, era portatore di una sintomatologia depressiva reattiva alla situazione contingente.
La Corte avrebbe dovuto pertanto tener conto – nel riferirsi a un agente ‘normalmente avveduto’ – delle indicate caratteristiche coinvolgenti in misura non indifferente le sue capacità intellettive.
4.2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia mancanza di motivazione in ordine al mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen., avendo egli provveduto al risarcimento del danno in favore delle persone offese, individuate nei suoi due figli, nipoti della vittima, a ciascuno dei quali ha versato, a ristoro dei danni morali, la somma di ventiduemila Euro.
Secondo il ricorrente, la Corte nel confermare il diniego di detta attenuante già opposto dal primo Giudice, che aveva ritenuto la inidoneità dell’offerta quale serio ristoro per la perdita subita, pur soffermandosi più diffusamente nella motivazione volta a giustificare le ragioni della decisione, ha enunciato una serie di parametri da considerare nella decisione circa la riconoscibilità della circostanza, senza procedere alla valutazione inerente alla consistenza del rapporto parentale tra la vittima e le persone offese, da considerare tenendo conto di dati esteriori e certi, quale la coabitazione, dimostrativi di un rapporto affettivo riflettentesi sul ristoro del danno non patrimoniale.
Considerato in diritto
- Il ricorso, manifestamente infondato, deve essere dichiarato inammissibile con ogni conseguenza di legge.
- Le deduzioni svolte con il primo motivo attengono al denunciato vizio motivazionale che connota lo sviluppo argomentativo della decisione impugnata nella configurabilità dell’errore, rilevante ai sensi dell’art. 59 cod. pen., in cui il ricorrente ha rappresentato di essere incorso nell’apprezzare, come espressione di consenso ‘esplicito, convincente, irretrattabile’ della madre a procurarne la morte, le ‘richieste profferite in più occasioni’ dalla stessa.
Tale vizio, nella prospettazione difensiva, è rilevabile sotto due profili, correlati alla possibilità, ritenuta dalla Corte di merito, di interpretare correttamente gli eventi riferendosi, dapprima, con enunciazioni indimostrate, a una capacità di decodificazione del linguaggio della vittima, che è, invece, meramente presunta, e, poi, alla riferibilità dello sviluppo coerente della serie causale a un agente normalmente avveduto, che è, invece, in contraddizione logica con l’analisi, pure evocata in sentenza, della personalità del ricorrente, capace di intendere e di volere ma ipodotato e, precariamente, affetto da sindrome depressiva.
2.1. La totale infondatezza delle mosse censure consegue al rilievo che la valutazione organica delle risultanze processuali, che si assume manchevole e contraddittoria con riguardo alla invocata putatività del consenso, è stata correttamente ed esaustivamente condotta nel giudizio di merito secondo un iter logico-argomentativo che, coerente in diritto ai principi costantemente affermati da questa Corte e non incongruo ai dati fattuali disponibili e utilizzati, ha fornito una persuasiva disamina della vicenda, dando conto delle linee interpretative seguite e rappresentando le ragioni significative della decisione adottata a fronte del compiuto vaglio delle deduzioni difensive fatte oggetto dei motivi di appello.
La Corte di merito, infatti, procedendo dalla preliminare analisi della tesi difensiva posta a fondamento della chiesta diversa qualificazione giuridica del non contestato fatto materiale, ascritto all’imputato quale omicidio volontario pluriaggravato, in termini di omicidio del consenziente ai sensi dell’art. 579 cod. pen., ha ritenuto non condivisibile tale tesi, anche riconducendola, secondo l’interpretazione indotta dalla lettura del motivo di gravame, alla commissione del matricidio, a opera dell’imputato, nella erronea convinzione soggettiva di avere colto il consenso della madre, in stato di limitata, grave e irrimediabile autosufficienza, a essere soppressa, pur non esternato con parole assolutamente inequivocabili, nelle sue frasi e manifestazioni di sconforto.
2.2. Richiamati i condivisi arresti di legittimità sui connotati del consenso presupposto dall’omicidio del consenziente, che deve essere serio, esplicito, non equivoco e perdurante sino al momento della commissione del fatto (tra le altre Sez. 1, n. 32851 del 06/05/2008, dep. 05/08/2008, Sapone e altri, Rv. 241231) ed esprimere una volontà di morire, la cui prova deve essere univoca, chiara e convincente in considerazione dell’assoluta prevalenza da riconoscersi al diritto personalissimo alla vita, non disponibile a opera di terzi (tra le altre, Sez. 1, n. 43954 del 17/11/2010, dep. 14/12/2010, Anselmi, Rv. 249052), la Corte ha rimarcato che, da un lato, la vittima, quando l’azione mortale è stata realizzata, ha opposto un’accanita e disperata resistenza, attestata da evidenze oggettive tratte dagli esiti della consulenza medico-legale, dimostrative, avuto riguardo alla natura e alla collocazione delle lesioni riportate, dell’assenza di un consenso, comunque perdurante e in ogni caso rilevante ai fini e per gli effetti di cui alla invocata meno grave ipotesi delittuosa, e, dall’altro lato, che le frasi, pronunciate nel tempo dalla vittima del genere di quelle riferite dalla nuora, volte ad annunciare con enfasi il momentaneo desiderio di morire, erano espressive – in quanto rientranti nelle “iperboli… riconducibili alle comuni figure del discorso che hanno la funzione di portare all’eccesso il concetto che intendono significare, amplificando (o talora riducendo) il riferimento alla realtà per rafforzare il senso di quanto viene detto’ – di deprecazioni non infrequenti nelle persone anziane seriamente malate, dettate da abbattimento, tristezza o scoramento.
In tale disamina la Corte non ha prescisso dall’avvertire che l’imputato, nel lungo intervallo di tempo, da lui stesso indicato in quattro – cinque minuti, in cui si è svolta l’azione violenta, avversata con tutte le forze dalla madre e conclusa con il decesso della stessa, non ha potuto non avvedersi della resistenza oppostagli e conseguire la consapevolezza di un non sussistente, e comunque in quel momento superato, consenso della vittima all’azione intrapresa e perseguita; né ha prescisso dal rilevare che il messaggio della vittima, volto a esprimere in forma rafforzata uno sfogo o un particolare sentimento o stato d’animo, e non a invocare forme di eutanasia e nel modo crudele riservatole, era intelligibile per qualsiasi interlocutore normalmente avveduto e non equivocabile a maggior ragione dall’imputato, che conosceva abitudini e modi di sentire e di dire della madre, anche valorizzando la circostanza, desunta dalle stesse dichiarazioni dell’imputato, che la sua decisione di uccidere, per essere correlata a un impulso improvviso e imprevedibile, non era in rapporto causale diretto con le parole pronunciate dalla vittima e fraintese nel loro significato.
2.3. L’analisi svolta ha esplorato, senza lasciare vuoti argomentativi, anche la questione relativa alla capacità di intendere e di volere dell’imputato nel tempo della commissione del fatto, in rapporto alle osservazioni, contenute nella relazione della consulenza tecnica di parte, circa il disturbo di personalità del medesimo e la sua incidenza nella causazione del fatto, e alla luce degli esiti della perizia collegiale in ambito psichiatrico disposta nel giudizio di appello per stabilire l’indicata capacità, oltre a quella dell’imputato di stare in giudizio.
La Corte, ampiamente e criticamente valutando i dati tratti dalle risposte date dal collegio peritale, senza ignorare le argomentazioni del consulente di parte e le deduzioni difensive, in coerenza con il consolidato orientamento di questa Corte in tema di controllo sulla motivazione nel caso di adesione del giudice alle conclusioni del perito di ufficio (tra le altre, Sez. 4, n. 34379 del 12/07/2004, dep. 11/08/2004, Spapperi, Rv. 229279; Sez. 1, n. 25183 del 17/02/2009, dep. 17/06/2009, Panini e altro, Rv. 243791), è pervenuta alla formulazione di una valutazione finale negativa circa l’esistenza di una infermità mentale dell’imputato, nel tempo della commissione del fatto, tale da elidere o scemare grandemente la sua capacità di intendere e di volere, o di disturbi della personalità rilevanti del medesimo in relazione al reato commesso, rilevando che i periti, somministrati all’imputato il test di intelligenza (di Wechsler-Bellevue) e il test proiettivo (di Rorschach), avevano evidenziato che il medesimo non era affetto da ‘disturbo dipendente di personalità’, né, al tempo del fatto, da ‘depressione maggiore o endogena’, essendo invece solo portatore di ‘sintomatologia depressiva reattiva alla situazione contingente’, che, quale ‘transitoria alterazione del tono dell’umore successiva ad un evento o ad uno stato di cose che viene considerato negativamente’, non incideva sulla imputabilità, non modificando apprezzabilmente il grado di autonomia del volere e non interferendo con le funzioni intellettive; avevano anche sottolineato, commentando l’esito del test di intelligenza, che il quoziente intellettivo dell’imputato, residuo rispetto al rilevato coefficiente di deterioramento intellettivo, rappresentava una efficienza intellettiva del medesimo nella media senza esprimere una sua infermità mentale; avevano osservato che il matricidio commesso dall’imputato andava considerato come l’effetto di una reazione a corto circuito che, pur essendo significativa di uno stato di turbamento psichico, pure descritto, non poteva concretare, non dipendendo da preesistente alterazione patologica, infermità di mente, e avevano, infine, rappresentato che, alla luce della collera e della rabbia rispecchiate dall’azione omicidiaria, come attestato dalle fotografie relative alle lesioni riportate dalla vittima, l’imputato, ribadendo di avere ucciso la madre per eutanasia, aveva costruito a posteriori sul piano psicologico una forma di autoconvincimento in un’ottica autoassolutoria.
2.4. In tale articolato contesto, ancorato alle risultanze ragionate delle evidenze disponibili, non possono trovare accoglimento le censure difensive, che, in sovrapposizione argomentativa rispetto all’articolato ragionamento probatorio svolto e senza correlarsi con i suoi esaustivi passaggi motivi, oppongono del tutto infondate deduzioni di dissenso quanto alla completezza dell’analisi della personalità del ricorrente e alla coerenza delle ragioni della decisione rispetto alle conclusioni espresse dai periti, e, con doglianze appuntate sul significato e sulla interpretazione di alcuni elementi (quali il coefficiente di deterioramento intellettivo dell’imputato e la sindrome depressiva, dalla quale il medesimo era affetto sia pure precariamente), già oggetto di esplicito apprezzamento del loro contenuto e della loro coordinazione con gli altri dati disponibili, tendono a impegnare questa Corte, esulando dai limiti del sindacato di legittimità, in una inammissibile nuova e parziale lettura degli elementi di conoscenza apportati ai Giudici di merito dal materiale processuale e in una revisione delle logiche e corrette valutazioni effettuate e delle conclusioni raggiunte dagli stessi Giudici.
- È priva di alcuna fondatezza anche la censura, oggetto del secondo motivo del ricorso, che riguarda il mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen..
Non presenta, infatti, alcuna carenza argomentativa, censurabile in questa sede, la decisione della Corte di merito, che, seguendo un percorso motivazionale concordante con quelle della sentenza di primo grado, che ha specificamente apprezzato, confermandolo, alla luce delle ragioni di censura opposte con specifico motivo di gravame, ha rilevato, con richiamo a pertinenti principi di diritto, non solo la non riconoscibilità di efficacia risarcitoria alla dedotta rinuncia all’eredità da parte dell’imputato in presenza di una condizione di sua indegnità a succedere, ma anche la congruità della valutazione svolta circa la inadeguatezza della somma erogata dall’imputato a titolo di ristoro del danno non patrimoniale in favore dei suoi due figli, quali unici eredi in linea retta della persona offesa, laddove il risarcimento del danno deve essere integrale (tra le altre, Sez. 4, n. 34380 del 14/07/2011, dep. 20/09/2011, Allegra, Rv. 251508; Sez. 2, n. 9143 del 24/01/2013, dep. 26/02/2013, Corsini e altri, Rv. 254880) e la valutazione equitativa della gravità del danno, relativizzata al fatto commesso e alle sue modalità e circostanze, deve essere compiuta dal giudice di merito secondo criteri di prudente apprezzamento (tra le altre, Sez. 5, n. 38948 del 27/10/2006, dep. 24/11/2006, Avenati e altri, Rv. 235024; Sez. 5, n. 35104 del 22/06/2013, dep. 14/08/2013, R.C. Istituto Città Studi, Baldini e altri, Rv. 257123), mentre l’espresso dissenso di merito attinge l’apprezzamento qui non rinnovabile della non integralità del risarcimento e, nel riferimento a circostanze non valutate, quale la coabitazione, si mantiene su un piano di assoluta genericità.
- Alla dichiarazione d’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché – valutato il contenuto del ricorso e in difetto della ipotesi di esclusione di colpa nella proposizione della impugnazione – al versamento della somma, ritenuta congrua, di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.
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