Suprema Corte di Cassazione
sezione V
sentenza 11 luglio 2014, n. 30790
Ritenuto in fatto
1. Il difensore di D.N.A. propone ricorso per cassazione contro la sentenza emessa in data 22 gennaio 2013 dalla Tribunale di Lanciano che confermava la decisione adottata dal Giudice di Pace di Atessa il 25 ottobre 2011, che aveva condannato D.N.A., per il reato di cui all’articolo 594 del codice penale, alla pena di euro 150 di multa e al risarcimento dei danni, nei confronti della costituita parte civile, S.L., liquidati in complessivi euro 300.
2. Avverso la decisione di primo grado D.N.A. aveva proposto appello, lamentando l’erronea valutazione delle risultanze dell’istruttoria da parte del giudice di prime cure, in particolare, evidenziando che S., in querela, aveva riferito di essere stato apostrofato dall’imputato con un’espressione leggermente diversa da quella riportata nel capo d’imputazione e ciò avrebbe modificato l’impostazione difensiva adottata dall’imputato. Tali doglianze sono state ritenute infondate e il giudice di secondo grado ha confermato l’impugnata sentenza.
3. Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione il difensore di D.N.A. lamentando violazione di legge in ordine alla mancata correlazione tra l’imputazione contestata e il fatto ritenuto provato in sentenza.
Considerato in diritto
1. Con l’unico motivo d’impugnazione la difesa dei ricorrente lamenta l’inosservanza delle norme processuali e, in particolare, il principio di necessaria correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza, evidenziando che il Tribunale, in sede di appello, aveva ritenuto D.N.A. responsabile per avere pronunziato le parole “mi hai rubato un paio di guanti”, mentre il capo d’imputazione indicava la differente espressione diffamatoria “ti hanno visto rubare un paio di guanti”, con ciò violando il principio di correlazione tra contestazione e sentenza. Infatti, la seconda frase -ad avviso della difesa- si caratterizza per un’accusa personale che il soggetto agente pronunzia nei confronti della persona offesa, mentre quella “ti hanno visto rubare un paio di guanti” rappresenta un’accusa che proviene da terzi, riferita dall’agente. Conseguentemente la difesa dell’imputato, in sede di merito, aveva insistito sull’assenza di dolo, evidenziando che la frase proferita da D.N.A. era finalizzata a consentire all’imputato di prospettare alla persona offesa una difesa, dimostrando l’inconsistenza dell’accusa che gli veniva mossa. Pertanto, conclude per l’annullamento senza rinvio della decisione o, in via subordinata, con rinvio ad altra sezione del Tribunale.
2. La censura è fondata.
3. In tema d’ingiuria, il criterio cui fare riferimento ai fini della ravvisabilità del reato è il contenuto della frase pronunziata e il significato che le parole hanno nel linguaggio comune, prescindendo dalle intenzioni inespresse dell’offensore, come pure dalle sensazioni puramente soggettive che la frase può aver provocato nell’offeso (Cass. Sez. I, 21 febbraio 2007, n. 7157), occorrendo fare riferimento a un criterio di media convenzionale in rapporto alla personalità dell’offeso e dell’offensore, nonché al contesto nel quale l’espressione sia stata pronunziata (Cass. Sez. 5, 3 giugno 2005 n. 39454), mentre l’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, per il quale è, però, necessario pur sempre che l’agente faccia consapevolmente uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive (Cass. Sez. 5, 7 febbraio 2013, n. 6169).
4. È pertanto errato sostenere – come ha fatto il Tribunale – l’indifferenza lessicale tra l’espressione “tu mi hai rubato i guanti” e quella “ti hanno visto rubare i guanti” (solo quest’ultima, peraltro, oggetto dell’imputazione), per essere -comunque- stato addebitato all’imputato il furto di un paio di guanti. Solo la prima espressione, infatti, può essere considerata lesiva dell’onore della parte offesa, poiché la nozione di onore attiene alle qualità e ai valori morali (rettitudine, probità, lealtà) che concorrono a determinare il valore di un individuo, mentre la seconda non può considerarsi anch’essa, nello stesso modo -come ha fatto il giudice di secondo grado- lesiva dell’onore dell’incolpato, per avere comunque la persona offesa fatto “propria un’accusa formulata da altri, (in) ogni caso ciò risolvendosi in una lesione dell’onore dell’incolpato”.
5. Al fine, infatti, di apprezzare l’esiguità dell’espressione è sempre necessario contestualizzarla, cioè rapportarla all’ambito spazio-temporale nel quale è stata pronunziata, potendo perdere gran parte della sua valenza offensiva ove inserita nel particolare contesto in cui è stata proferita (Cass. Sez. 5, 30 giugno 2011, n. 32907 e Cass. Sez. 5, 6 marzo 2008, n. 10420) e cioè in un ambiente lavorativo, come quello dei luogo di ristorazione, cui appartenevano sia l’imputato, che la persona offesa, caratterizzato dalla possibilità, per i camerieri, di subire conseguenze economiche (decurtazione dei compensi), ove nella specie non fossero stati rinvenuti gli indumenti mancanti.
6. Orbene, essendo l’espressione cui comunque bisogna fare riferimento (quella cioè di cui all’imputazione: “ti hanno visto rubare i guanti”), stata pronunziata con la finalità riconosciuta dallo stesso Tribunale- dell’imputato “di evitare agli altri colleghi dello S. la decurtazione dei compensi della parte civile che avrebbe potuto seguire alla mancata restituzione degli indumenti utilizzati dai camerieri per il servizio”, essa viene, nel contesto in cui è stata pronunziata, a perdere la sua valenza offensiva, anche sotto il profilo soggettivo, il quale deve pur sempre essere sorretto dalla volontà dell’agente di usare espressioni offensive, con la consapevolezza di offendere l’altrui onore o l’altrui reputazione, volontà che nella specie, per quanto fin qui evidenziato, non è dato rinvenire.
7. L’impugnata sentenza deve, pertanto, essere annullata senza rinvio, poiché il fatto non costituisce reato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.
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