Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 30 maggio 2014, n. 12220
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 23 maggio 1996 il CONDOMINIO (omissis) evocava, dinanzi al Tribunale di Bergamo, L.F. esponendo che questi, con concessione edilizia rilasciata dal Comune, n. 22 del 1995, aveva demolito un vecchio corpo di fabbrica di sua proprietà, aderente in parte la facciata condominiale ed in parte il muro di confine, ricostruendolo in modo difforme dal precedente, in particolare era maggiore il sedime occupato, nonché l’altezza della costruzione, per cui vi era stato un incremento della superficie in aderenza alla parete condominiale, in spregio alla distanza legale di tre metri dal confine ai sensi dell’art. 873 c.c.; aggiungeva che il convenuto nel ricostruire il muro di confine, diverso per spessore e materiale rispetto a quello preesistente, aveva occupato una parte della proprietà condominiale; chiedeva, pertanto, l’abbattimento della costruzione per ricostruirla a distanza legale ovvero il suo arretramento a distanza legale, oltre al risarcimento dei danni, nonché il ripristino del muro di confine, disponendosi il rilascio della parte di proprietà condominiale illegittimamente occupata, con condanna ai danni.
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del convenuto e della coniuge, G.M. , la quale interveniva nella qualità di proprietaria dell’immobile a fare tempo dal 22.2.1994, che assumevano di avere costruito il corpo di fabbrica in base a due concessioni edilizie, la n. 209 del 1993 e la n. 22 del 1995 in variante, entrambe impugnate dal Condominio avanti al TAR Brescia, procedimento pregiudiziale rispetto al presente, per cui ritenevano necessaria la sospensione del giudizio avanti al g.o., nel merito, sostenevano che ai sensi degli artt. 30 N.T.A. al P.R.G. e 16 N.T.A. del Piano particolareggiato del centro storico, le opere eseguite dovevano qualificarsi come ristrutturazione e come tali non erano soggette alle distanze legali, quanto all’aumento di altezza, lo stesso era consentito dalla legge regionale n. 19 del 1992 a tenore della quale il suo aumento fino ad un metro non poteva essere considerato “variante essenziale”, norme che comunque non integravano violazioni ex art. 872 c.c., per cui era consentito il solo risarcimento del danno, mentre il muro di confine era stato abbattuto e ricostruito con il consenso dell’Amministratore, il giudice adito, espletata c.t.u., accoglieva la domanda attorea limitatamente all’abbattimento del muro di confine, che risultava sconfinare nell’area di proprietà del Condominio, riconosciuto un danno per L. 4.000.000, mentre affermava che la realizzazione del fabbricato doveva essere considerata a tutti gli effetti una ristrutturazione che riguardava l’intero immobile, con conseguente applicazione degli artt. 30 N.T.A. al P.R.G. 16 N.T.A. del P.P., secondo i quali detto intervento non era soggetto alle distanze legali, potendo essere l’edificio posto ad una distanza non inferiore a quella precedente, anche con apporto di modifiche alle forme originali e limitate correzioni al sedime, comunque applicabile l’art. 873 c.c. nel prevedere la possibilità di costruire in aderenza.
In virtù di rituale appello interposto dal CONDOMINIO (…), con il quale lamentava la erronea qualificazione giuridica dell’intervento edilizio in questione, oltre che della legge urbanistica applicabile, nonché nel qualificare nuova la domanda relativa alla inosservanza delle distanze quanto alla finestra realizzata nel tettuccio incassato, la Corte di appello di Brescia, nella resistenza degli appellati, accoglieva parzialmente il gravame e in parziale riforma della decisione del giudice di prime cure, condannava gli appellati ad arretrare a distanza legale la porzione di fabbricato costruito in aderenza al CONDOMINIO, con condanna in solido degli stessi appellati al risarcimento del danno causato da illegittima costruzione liquidato in Euro 5.000,00, confermata per il resto la sentenza impugnata.
A sostegno della decisione adottata la corte territoriale evidenziava che dalla relazione peritale risultava che l’intervento realizzato dagli appellati era consistito nella completa demolizione di due corpi di fabbrica aderenti a quello principale ad uso residenziale – commerciale, con recupero della relativa volumetria in successiva ricostruzione; nella realizzazione di un nuovo corpo interrato con autorimessa e servizi accessori ai negozi esistenti, con scivolo di accesso da via (omissis) ; nella completa ristrutturazione di un corpo di fabbrica aderente a quello attoreo, destinato ad abitazione, sviluppantesi in due piani fuori terra (piano terreno e primo piano); in altre opere di ristrutturazione interessanti il fabbricato principale, destinato a due negozi al piano terreno e ad abitazione al primo piano; modificazione delle falde di tetto precedenti, uniformandone pendenze ed altezze in gronda e ricavando un unico ampio locale di sottotetto che si sviluppava al piano fuori terra coprendone i due corpi suddetti.
Da quanto esposto deduceva che doveva essere considerata come costruzione completamente nuova e diversa da quella preesistente, inseriti nel contesto unitario anche l’arretramento del tetto e la ricostruzione del muro del sottotetto ad una distanza di mt. 2,25 dalla facciata del CONDOMINIO, come emergeva dalla conformazione del fabbricato e dal suo posizionamento, in particolare dai consistenti aumenti di volumetria (me. 61,425) e di superficie in aderenza (mq. 20,475), dalle apportate modifiche perimetrali, dalla maggiore altezza della copertura del tetto (mt. 1), dalla parziale occupazione di una parte non limitata di sedime, dalla creazione di locali accessori sotterranei, elementi ostativi alla qualificazione dell’intervento come di ristrutturazione, secondo la definizione fornita dalle stesse N.T.A. (norme tecniche di attuazione) del P.R.G.. Né nella specie trovava applicazione l’art. 16 del Piano Particolareggiato del Comune di San Pietro che non aveva alcun contenuto precettivo essendo destinato a legittimare gli interventi edilizi innovatori nel centro storico e non a regolare le distanze fra edifici.
Aggiungeva che non poteva ritenersi legittima la costruzione in aderenza, a mente dell’art. 873 c.c., che trovava residuale applicazione solo ove il regolamento comunale non prevedesse una distanza maggiore.
Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Brescia hanno proposto ricorso i coniugi L. e G. , articolato su sette motivi, illustrati anche da memorie ex art. 378 c.p.c., in particolare nell’ultima si dava atto che nelle more del giudizio di cassazione era intervenuta sentenza del TAR di annullamento del provvedimento concessorio, cui ha resistito il CONDOMINIO (…) con controricorso.
Fissata pubblica udienza per il 12 ottobre 2012, la causa veniva rinviata a nuovo ruolo per acquisire delibera condominiale di autorizzazione dell’amministratore a stare in giudizio, atto prodotto l’8.1.2013; nuovamente fissata la causa per il 16.5.2013, con ordinanza interlocutoria del 17.6.2013, è stata disposta l’acquisizione dello strumento urbanistico del Comune di San Pietro vigente negli anni 1995 – 1996, pervenuto a questo ufficio il 19.8.2013.
Motivi della decisione
Rileva il collegio che occorre, in primo luogo, farsi carico della trasmissione da parte del Comune di Ponte San Pietro, in allegato ai documenti richiesti con ordinanza n. 15102/2013, della sentenza n. 4869 del 2010 del T.A.R. Lombardia (sezione distaccata di Brescia), cui fanno riferimento gli stessi ricorrenti nell’ultima memoria illustrativa, con la quale è stato parzialmente accolto il ricorso proposto, fra l’altro, anche dal Condominio Poste nei confronti del Comune di Ponte San Pietro e del L. , avente ad oggetto proprio l’attività di demolizione-ristrutturazione del compendio immobiliare de quo, per dedurne che essa non è idonea a spiegare alcuna efficacia nella presente controversia.
Al di là della circostanza che non risulta prodotta la prova documentale inequivoca del passaggio in giudicato delle richiamata sentenza del giudice amministrativo, va rilevato che il giudizio amministrativo ineriva l’impugnazione della legittimità di una concessione edilizia, il cui rilascio viene, di norma, effettuato con salvezza dei diritti dei terzi e come tale è insuscettibile di produrre effetti propriamente riconducibili al giudicato sugli aspetti di merito, tali da poter estendere la sua efficacia espansiva in altri giudizi (cfr, ad es., Cass. n. 10545 del 2008 e Cass. n. 11798 del 2011).
Ciò posto, si rileva che, con il primo motivo, i ricorrenti hanno dedotto la nullità parziale del procedimento con riferimento all’art. 81 c.p.c. e agli artt. 1130 e 1131 c.c. con riguardo alla legittimazione attiva dell’amministratore condominiale. In particolare i ricorrenti deducono la mancata rilevazione del difetto parziale di legittimazione attiva dell’amministratore, non avendo la delibera del 24.6.1996 legittimato lo stesso alla proposizione della domanda di demolizione del fabbricato dei deducenti siccome pretesamente ricostruito a distanza inferiore a quella legale.
La censura è priva di fondamento.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (v. Cass. 16 luglio 2002 n. 10274), in tema di condominio di edifici, mentre l’amministratore può agire in giudizio e proporre impugnazioni, nell’ambito delle attribuzioni conferitegli dall’art. 1130 c.c., anche senza apposita autorizzazione (e tale potere perdura anche nel caso di cessazione dalla carica, fino alla sostituzione), allorquando la causa esorbita dai limiti di attribuzione stabiliti dall’art. 1130 c.c. l’amministratore che agisce in giudizio in nome del Condominio deve dare la prova di essere autorizzato a promuovere l’azione contro i singoli condomini o terzi, mediante la produzione della delibera dell’assemblea condominiale dalla quale risulti che egli è l’amministratore e che gli è stato conferito mandato a promuovere l’azione giudiziaria.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno poi avuto modo di precisare che l’amministratore del Condominio, potendo essere convenuto nei giudizi relativi alle parti comuni, ma essendo tenuto a dare senza indugio notizia all’assemblea della citazione e del provvedimento che esorbiti dai suoi poteri, ai sensi dell’art. 1131 c.c., commi 2 e 3, può costituirsi in giudizio e impugnare la sentenza sfavorevole senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea, ma deve, in tale ipotesi, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte dell’assemblea stessa, per evitare la pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione (v. Cass. SS.UU. 6 agosto 2010 n. 18331; cfr. altresì Cass. 31 gennaio 2011 n. 2179).
Nella specie, non è in contestazione che il Condominio ha depositato in data 21 gennaio 2005 copia del verbale dell’assemblea condominiale del 24.6.1996, relativa al conferimento del mandato per l’introduzione del presente giudizio da parte dell’amministratore pro tempore a tutela dei diritti vantati dallo stesso Condominio nei confronti del L. (v. pag. 10 dello stesso ricorso), per cui ricorre il caso di autorizzazione sussistente fin dal principio – stante l’epoca di adozione della delibera, il 24.6.1996 – della quale è stata data tardivamente solo la prova in giudizio. In questa ipotesi, a norma dell’art. 182 c.p.c., il giudice era comunque tenuto – ove avesse rilevato un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determinava la nullità della procura al difensore – a provvedere alla sanatoria di tale vizio, dovendosi equiparare la nullità della procura “ad litem” al difetto di rappresentanza processuale (in tal senso Cass. SS.UU. n. 28337 del 2011), senza alcun effetto preclusivo.
Né appaiono condivisibili i dubbi esposti dai ricorrenti in ordine alla validità del predetto verbale di assemblea del 24 giugno 1996 per conferire all’Amministratore i necessari poteri per proporre la domanda di demolizione dei fabbricati realizzati in violazione delle distanze legali: basti osservare come l’autorizzazione dell’assemblea a resistere in sostanza non è che un mandato all’amministratore a conferire la procura ad litem al difensore che la stessa assemblea ha il potere di nominare, onde, in definitiva, l’amministratore non svolge che una funzione di mero nuncius (v. Cass. sentt. n. 22294 del 2004 e n. 1422 del 2006; per un orientamento difforme, v. le risalenti sentenze n. 1337 del 1983, n. 5203 e n. 7256 del 1986), per cui anche solo esprimere la volontà di introdurre il contenzioso costituisce valida delega, essendo poi rimesso al difensore la scelta del tutto tecnica di modulare le difese, anche quanto alla tipologia di azione giudiziale da intraprendere a garanzia della posizione fatta valere (in termini, v. Cass. 24 febbraio 2014 n. 4366).
Con il secondo motivo è dedotta la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, con riferimento agli artt. 873 e 877 c.c., nonché agli artt. 30 n. 1 delle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Ponte San Pietro e 16 Grado di intervento n. 6 e n. 5 delle N.T.A. del Piano particolareggiato del Centro Storico riguardo al diritto di ricostruzione, con pari volumetria, d’un edificio demolito, in aderenza a quello adiacente posto sul confine, con estensione della superficie dell’originaria aderenza. In sintesi si dolgono i ricorrenti che il giudice di merito non abbia tenuto conto che le prescrizioni per le ricostruzioni di cui al Grado 5 – richiamate nella disposizione relativa al Grado 6 – riguardavano esclusivamente la conservazione del medesimo volume dell’edificio anteriore, per cui non vi era alcuna limitazione a che essi compissero la ristrutturazione facendo aderire l’edificio a quello del CONDOMINIO (…).
Con il terzo motivo è denunciato il vizio di omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione rispetto al punto decisivo della controversia riguardante il rispetto o meno nella ricostruzione dell’edificio dei ricorrenti del requisito dei “limiti volumetrici preesistenti” e delle altre condizioni di cui alle prescrizioni Grado 5 dell’art. 16 delle N.T.A. al Piano Particolareggiato del Centro Storico, nonché nell’individuazione di ogni eventuale diverso elemento da cui possa scaturire la definizione di “nuova costruzione”. In altri termini, ad avviso dei ricorrenti, il giudice del gravame avrebbero affrontato in modo erroneo e distorto la questione sul se la riedificazione del fabbricato desse luogo o meno ad una nuova costruzione, attribuendo erroneamente al c.t.u. rilievi dallo stesso non effettuati, in quanto ha individuato un aumento della volumetria del fabbricato ricostruito non nella sua compiuta consistenza, ma solo per la parte posta in aderenza al fabbricato condominiale (mc 61, 425) e per la parte posta sul confine libero (me 8,522), evidenziando che comunque “la costruzione dei convenuti non viola lo strumento urbanistico in tema di possibilità edificatorie, ed inoltre ottempera alle norme di attuazione in materia di distanze tra edifici”.
Entrambi i motivi – da trattare congiuntamente perché attengono alla medesima questione della definizione del concetto di ricostruzione – vanno disattesi.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis: Cass. n. 2039 del 2005; Cass. n. 20139 del 2006), costituisce nuova costruzione qualsiasi modifica della volumetria del fabbricato, derivante sia dall’aumento della sagoma di ingombro sia da qualsiasi sopraelevazione, ancorché di dimensioni ridotte. In entrambi i casi, la normativa da rispettare ai fini delle distanze è quella vigente al momento della modifica suddetta, anche se sopravvenuta rispetto alla costruzione originaria, né rileva la prevenzione, essendo ugualmente obbligati al rispetto della nuova distanza sia il preveniente sia il prevenuto.
È, infatti, pacifico in giurisprudenza che la regola che vincola il proprietario che ha costruito per primo sul confine, secondo il principio della prevenzione, alla scelta compiuta, imponendogli, nel caso di sopraelevazione, di rispettare il filo della precedente fabbrica, non è applicabile nel caso in cui lo strumento urbanistico locale, successivamente intervenuto, abbia sancito l’obbligo inderogabile di osservare una determinata distanza dal confine ovvero tra le costruzioni perché tale nuova disciplina, integrativa di quella codicistica, vincola anche il preveniente, che è così tenuto, se vuole sopraelevare, alla osservanza della diversa distanza stabilita senza alcuna facoltà di allineamento (in verticale) alla originaria preesistente costruzione, a meno che la normativa regolamentare non preveda un’espressa eccezione in proposito (v. fra tante: Cass. 17 giugno 1992 n. 7456; Cass. 30 ottobre 1998 n. 10864; Cass. 3 luglio 2001 n. 8989).
Ne consegue che la sentenza impugnata, avendo accertato che nella specie – contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti – il complesso intervento realizzato dai coniugi L. – G. sulla loro proprietà, in particolare quello riguardante la demolizione del vecchio corpo di fabbrica aderente, in parte, la facciata condominiale ed, in parte, il muro di confine, e la ricostruzione dell’immobile, poiché aveva comportato la edificazione di una costruzione completamente difforme dalla preesistente sia quanto alla maggiore superficie di sedime e di aderenza occupato sia quanto all’altezza (con la modifica delle falde di tetto, uniformandone le pendenze e le altezze di gronda, ricavandone così un unico ampio locale di sottotetto), è stato correttamente qualificato come nuova costruzione proprio per le descritte caratteristiche che hanno apportato notevoli elementi di novità all’originario bene, per cui è conforme ai suddetti principi.
Il giudice d’appello, perciò, con adeguata ed esaustiva motivazione, è giunto alla conclusione che non poteva ritenersi legittima la costruzione in aderenza, a mente dell’art. 873 c.c., che trovava residuale applicazione solo ove il regolamento comunale non prevedesse una distanza maggiore. L’ordine di demolizione risulta pertanto legittimo, non potendo il nuovo corpo di fabbrica essere costruito in violazione delle distanze come previste dal piano regolatore in vigore al tempo del rifacimento dell’edificio, dal momento che anche il nuovo strumento urbanistico parrebbe profilare una disciplina più restrittiva laddove all’art. 30 n. 1 per la zona A) stabilisce che “per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale”, precisato al successivo art. 31 che le trasformazioni compatibili non possono avvenire con incrementi di densità di zona e fondiaria né di altezza, ma dovendosi invece osservare la distanza minima legale di 5 metri dal confine imposta per le nuove costruzioni dalle nuove disposizioni urbanistiche (art. 16 – grado 6) del Piano Particolareggiato del Comune di San Pietro.
Con il quarto motivo è dedotta la violazione o falsa applicazione degli artt. 873 c.c. e 30 N.T.A. al P.R.G., sia pure con carattere subordinato, per avere la corte territoriale condannato i ricorrenti ad arretrare la porzione di fabbricato costruito in aderenza allo stabile del CONDOMINIO (…) alla distanza legale, determinandola in mt. 5 dal confine, non prevista da alcuna delle disposizioni dell’art. 30 di cui sopra.
Il rigetto della doglianza discende dall’infondatezza dei mezzi due e tre, avendo la corte territoriale – per le ragioni sopra esposte – ritenuto sussistere nella specie ipotesi di edificazione caratterizzata dalla sostanziale novità e conseguentemente la distanza dal confine è stata determinata, ai sensi del Piano Particolareggiato del Comune di San Pietro, con riferimento a detta tipologia di costruzione. Quanto, poi, alla misura della distanza legale il giudice del gravame ha ritenuto che non potesse essere inferiore a quella minima di 5 metri, come stabilito dalle norme di attuazione del PRG al punto 16, ultima parte, sotto la rubrica “distanza dei fabbricati dai confini di proprietà (DC)”.
Con il quinto motivo i ricorrenti denunciano la nullità del procedimento per violazione dell’art. 345, comma 1, c.p.c. per avere il CONDOMINIO ampliato in secondo grado la domanda risarcitoria estendendola oltre alla “indebita aderenza dell’immobile de quo con quello attoreo”, alla violazione delle distanze. La doglianza non ha pregio.
La questione proposta è se possa considerarsi nuova la domanda con cui, lamentando la presenza nel fondo vicino di un manufatto in aderenza con quello attoreo difforme da quello originario, la parte chieda in appello, a titolo risarcitorio, anche il danno per violazione delle distanze legali rispetto al confine.
In termini generali la risposta può essere ricercata, innanzitutto, nelle regole che disciplinano l’interpretazione della domanda giudiziale, essendo un principio ormai consolidato che una corretta interpretazione della domanda impone all’interprete di non fermarsi alla sola analisi letterale delle parole, ma richiede anche e soprattutto una valutazione di tipo contenutistico e sostanziale, al fine di verificare la finalità perseguita dalla parte, vale a dire l’utilità concreta che l’attore si attende dal giudizio (Cass. n. 8128 del 2004 e Cass. n. 22665 del 2004). Nessun dubbio poi che la relativa attività costituisca un giudizio di fatto, come tale riservato al giudice di merito (Cass. n. 4754 del 2004).
Ancora, si ammette pacificamente che l’attore possa modificare la propria domanda, sia pure nei limiti della emendatio e non della “mutatio libelli”, anche in ragione dei mutamenti della situazione di fatto venutisi a creare nel corso del giudizio. Sul tema, in particolare, questa Corte ha avuto modo di affermare che, a norma dell’art. 345 c.p.c, può configurarsi un mutamento di domanda non consentito, riguardo al “petitum”, solo quando risulti innovato l’oggetto della pretesa, inteso non come “petitum” immediato (ossia come provvedimento richiesto), bensì come “petitum” mediato (cioè come richiesta di attribuzione di un bene determinato), con l’effetto che va esclusa la ravvisabilità della “mutatio libelli” vietata, dovendosi invece ritenere ricorrente una consentita “emendatio”, allorché la modifica della domanda originale venga ad incidere sul “petitum” solo nel senso di adeguarlo in una direzione più idonea a legittimare la concreta attribuzione del bene materiale oggetto della originaria domanda (Cass. n. 20683 del 2005; n. 4465 del 1995; cfr. anche Cass. n. 21354 del 2005).
Sulla base di queste direttrici, la questione proposta va risolta ravvisando nella modifica della domanda effettuata dall’attore in grado di appello una mera “emendatio libelli”, come tale consentita dall’art. 345 c.p.c, essendo sufficiente, al riguardo, riflettere sulla circostanza che esso, domandando il risarcimento del danno per avere i convenuti realizzato il fabbricato in aderenza in difformità rispetto a quello preesistente, con violazione delle distanze legali, ha in realtà specificato che la costruzione in appoggio era a distanza inferiore a quella legale dal confine, dunque ha chiesto qualcosa che era ricompreso nella pretesa originaria, costituendo l’aderenza uno dei modi di violazione delle distanze legali tra edifici. La domanda asseritamente nuova, dunque, si salda ed integra quella originaria, apparendo evidente, anche dal punto di vista fattuale, che il risarcimento del danno richiesto attiene al divieto di costruire in violazione delle distanze legali non solo tra le costruzioni, ma anche delle stesse dal confine.
Con il sesto motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, comma 1, e 1226 c.c., nonché insufficiente motivazione, in relazione all’affermata ricorrenza del danno in re ipsa e a nullità del procedimento per violazione dell’art. 115 c.p.c. In particolare, i ricorrenti oltre a dolersi del riconoscimento del danno qualificandolo in re ipsa, lamentano che il giudice di appello non abbia tenuto conto dell’accertamento del c.t.u. che sul punto verificava l’insussistenza del danno, non indicati i criteri adottati per pervenire al risultato espresso, né il CONDOMINIO aveva in alcun modo fornito la prova di detto danno.
Anche detta doglianza non ha pregio.
L’atto edificatorio del vicino in violazione delle norme, del codice o regolamentari comunali, sulle distanze, oltre a ledere gli interessi pubblici sottesi alla disciplina concernente l’assetto del territorio, pone in essere un’attività edilizia eccedente quanto è previsto, nei rapporti tra confinanti, dalla normativa conformativa del diritto di proprietà, sicché il privato che, nei confronti dell’edificante illegittimo, lamenti la lesione della sua sfera proprietaria, ha diritto, ai sensi dell’art. 872 c.c., comma 2, ad una doppia tutela: all’eliminazione dello stato di cose che si è illegittimamente creato e al risarcimento del danno patito medio tempore.
L’inosservanza delle distanze legali nelle costruzioni sui fondi finitimi costituisce per il vicino una limitazione al godimento del bene, e quindi all’esercizio di una delle facoltà che si riconnettono al diritto di proprietà: per questo il danno è in re ipsa, perché l’azione risarcitoria è volta a porre rimedio all’imposizione di una servitù di fatto e alla conseguente diminuzione di valore del fondo subita dal proprietario in conseguenza dell’edificazione illegittima del vicino, per il periodo di tempo anteriore all’eliminazione dell’abuso.
Il Collegio intende dare continuità al prevalente indirizzo – non soltanto risalente nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. 27 febbraio 1946 n. 201; Cass. 8 maggio 1946 n. 551; Cass., Sez. Un., 24 giugno 1961 n. 1520; Cass. 12 febbraio 1970 n. 341), ma anche ribadito negli ultimi arresti (Cass. 15 dicembre 1994 n. 10775; Cass. 25 settembre 1999 n. 10600; Cass. 7 marzo 2002 n. 3341; Cass. 27 marzo 2008 n. 7972; Cass. 7 maggio 2010 n. 11196) – che, in caso di violazione delle norme sulle distanze, concede al proprietario, nei confronti dell’edificante illegittimo, l’azione risarcitoria per il danno determinatosi prima della riduzione in pristino, senza la necessità di una specifica attività probatoria.
Questa soluzione non determina un eccesso di tutela per il proprietario od uno snaturamento del sistema della responsabilità civile, che, com’è noto, ammette la risarcibilità del solo danno conseguenza (cfr., con riguardo al danno non patrimoniale, Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008 n. 26972).
Discorrere di danno in re ipsa, infatti, non significa riconoscere che il risarcimento venga accordato per il solo fatto del comportamento lesivo o si risolva in una pena privata nei confronti di chi violi l’altrui diritto di proprietà, in contrasto, tra l’altro, con la tavola dei valori espressa dalla Carta costituzionale, che riconosce e garantisce la proprietà privata, ma non la inquadra tra i diritti fondamentali della persona umana, per i quali soltanto è predicabile una connotazione di inviolabilità, di incondizionatezza e di primarietà.
Significa, piuttosto, ammettere che, nel caso di violazione di una norma relativa alle distanze tra edifici, il danno che il proprietario subisce (danno conseguenza e non danno evento) è l’effetto, certo ed indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo, e quindi della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima.
La corte di appello si è attenuta ai detti principi giurisprudenziali per cui la sentenza impugnata, del tutto corretta, si sottrae alle critiche di cui è stata oggetto con il motivo in esame.
In tale contesto, essendovi la certezza della sussistenza del danno in re ipsa, nelle sue varie componenti, come sopra riportate (abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo, con conseguente limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima), a fronte dell’obiettiva difficoltà di determinazione del quantum, il giudice correttamente ha dovuto far ricorso ad una valutazione equitativa ex art. 1226 c.c., adottando un adeguato parametro di quantificazione, quale il valore reddituale dell’immobile per la sua mancata temporanea fruibilità, tenuto conto del lungo periodo decorso dalla realizzazione della violazione (dieci anni).
Con il settimo motivo viene dedotta la nullità parziale del procedimento per violazione delle norme sulla formazione del giudicato interno ex art. 324 c.p.c. in relazione alla liquidazione delle spese compiuta dal giudice di primo grado, oltre a d omessa motivazione riguardo alla statuizione della condanna alle spese (art. 91 c.p.c.) rilevabile d’ufficio. In altri termini, ritengono i ricorrenti che avendo l’appellante CONDOMINIO richiesto in punto spese solo il rimborso integrale di quanto esborsato, pari ad Euro 2.680,42, il giudice di appello avrebbe errato nel liquidarle in complessivi Euro 3.000,00. Tale ultimo assunto è manifestamente infondato.
Come noto, quanto ai poteri del giudice di appello, in merito alla distribuzione dell’onere delle spese, con riguardo del giudizio di primo grado, occorre distinguere a seconda che lo stesso rigetti, nel merito, il gravame o, piuttosto, l’accolga. Nella prima ipotesi (rigetto nel merito del gravame) il giudice di secondo grado, in mancanza di un motivo specifico in ordine alla decisione sulle spese processuali, non può modificare tale statuizione, ad esempio compensando tra le parti le spese di primo grado (Cass. 7 gennaio 2004 n. 58; Cass., sez. un., 17 ottobre 2003 n. 15559; Cass. 2 luglio 2003 n. 10405).
Diversamente, il giudice di appello, allorché riforma in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d’ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, dato che l’onere di esse va attribuito e ripartito tenendo presente l’esito complessivo della lite (Cass., sez. un., 17 ottobre 2003 n. 15559; Cass. 18 marzo 2003 n. 3964; Cass. 17 aprile 2002 n. 5497).
Pacifico quanto precede, e non controverso che nella specie i giudici di secondo grado, quanto alle domande proposte dal Condominio nei confronti dei L. e G. , hanno parzialmente riformato la sentenza di primo grado, con accoglimento delle originarie domande attoree, è di palmare evidenza che sussisteva nella specie un puntuale dovere di quei giudici di provvedere a una nuova regolamentazione delle spese di lite, tra le dette parti, anche in assenza di un specifica impugnazione da parte del soccombente in primo grado. Conclusivamente il ricorso va rigettato.
Alla soccombenza segue la condanna dei L. -G. al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, in favore del CONDOMINIO.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi.
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