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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Sentenza 5 giugno – 2 ottobre 2013, n. 22538

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. STILE Paolo – Presidente –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 14891/2011 proposto da:

BENNET S.P.A. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 20, presso lo studio dell’avvocato PETRACCA NICOLA DOMENICO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MORO CLAUDIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 38, presso lo studio dell’avvocato NARDI CARLANTONIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato SCISCA ROBERTO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1049/2010 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 22/12/2010 r.g.n. 302/08;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/06/2013 dal Consigliere Dott. FEDERICO BALESTRIERI;

udito l’Avvocato PETRACCA NICOLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROMANO Giulio, che ha concluso che ha concluso per l’accoglimento del quarto motivo e rigetto degli altri.

Svolgimento del processo

C.G. espose al Tribunale di Monza di essere dipendente della società Bennet, e di aver prestato attività lavorativa in qualità di addetto al reparto macelleria presso il supermercato di (OMISSIS); che dal luglio 2002 iniziò a ricevere una numerosa serie di contestazioni disciplinari, con altrettante sanzioni che andavano dalla multa alla sospensione; che durante i periodi di malattia, dal mese di dicembre 2002 al febbraio 2003, era stato sottoposto a ben 15 visite mediche di controllo; che nel marzo 2003 egli aveva avuto l’ennesimo rimprovero da altro superiore (M.), in seguito al quale aveva avuto una crisi psicologica ed aveva quindi ripreso ad assentarsi per malattia durante le quali assenze aveva ricevuto ulteriori numerose visite fiscali; di essere stato quindi licenziato con lettera del 14 luglio 2003 per superamento del periodo di comporto.

Lamentò il C. la illegittimità delle sanzioni disciplinari inflittegli; il nesso causale tra la malattia e le condizioni di lavoro, le pressioni e le sanzioni illegittime subite, sia quindi la illegittimità del licenziamento, non potendosi ritenere superato il comporto, attesa la riconducibilità delle assenze per malattia alla condotta aziendale. Resisteva la società.

Il Tribunale ritenne, sulla scorta dell’istruttoria espletata, che le sanzioni irrogate fossero illegittime, alcune perchè sproporzionate, altre per essere gli addebiti contestati insussistenti sul piano disciplinare, accertando altresì alcune condotte discriminatorie operate dalla società nei confronti del C.; ritenne inoltre, dopo aver disposto c.t.u. medico legale, che le assenze per malattia fossero conseguenza dell’ambiente lavorativo e della condotta aziendale posta in essere nei suoi confronti, in particolare con le numerose sanzioni disciplinari poi accertate come illegittime, da ciò derivando la loro non computabilità ai fini del calcolo del periodo di comporto. Condannò dunque la società alla reintegrazione del C. nel suo posto di lavoro ed al risarcimento del danno ex art. 18 legge n. 300/70, riconoscendo al lavoratore un danno non patrimoniale in base all’incapacità lavorativa accertata dal c.t.u.

La Bennet s.p.a. proponeva appello; resisteva il C.

La Corte d’appello di Milano, con sentenza depositata il 22 dicembre 2010, respingeva il gravame.

Per la cassazione propone ricorso la società Bennet, affidato a quattro motivi, poi illustrati con memoria.

Resiste il C. con controricorso.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 414 c.p.c., nonchè vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia (ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5).

Lamenta che la sentenza impugnata ritenne erroneamente rituale il ricorso introduttivo della lite di cui essa ricorrente aveva eccepito tempestivamente la nullità per mancanza dei requisiti di cui all’art. 414 c.p.c.

Il motivo è infondato.

Questa Corte ha già osservato, che nel rito del lavoro, la valutazione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, per mancata determinazione dell’oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto sulle quali questa si fonda, implica una interpretazione dell’atto introduttivo della lite, riservata – salva la censurabilità in sede di legittimità per vizi della motivazione – al giudice del merito, il quale, in sede di appello, può peraltro trarre elementi di conforto del proprio convincimento circa la sufficienza degli elementi contenuti nel ricorso dal rilievo che essi consentirono al giudice di primo grado di impostare e svolgere l’istruttoria ritenuta necessaria per la decisione della controversia (Cass. 9 maggio 2012 n. 7097; Cass. n. 7843 del 2003).

La nullità del ricorso introduttivo per omessa determinazione dell’oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui essa si fonda, è in sostanza ravvisatale solo quando attraverso l’esame complessivo dell’atto risulti impossibile l’individuazione esatta della pretesa del ricorrente ed il resistente non possa apprestare una compiuta difesa, ciò che comporta l’esame non solo dell’atto ma anche delle ragioni esposte nella sentenza impugnata per affermare che il ricorso stesso sia o meno affetto dal vizio denunciato (Cass. n. 3126 del 2001; Cass. n. 820 del 2007).

A tale principio occorre qui dare continuità, rilevando non solo che il giudice di appello ha escluso, dall’esame complessivo dell’atto, che il ricorso rendesse impossibile l’individuazione esatta della pretesa del ricorrente, ma che, come risulta anche dalla parte espositiva, il primo giudice svolse adeguata attività istruttoria in ordine alle pretese avanzate dal C., nel pieno contraddittorio, anche di merito, con la società convenuta.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., artt. 61, 62, 194, 416 e 421 c.p.c., nonchè contraddittoria ed insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia (ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5).

Lamenta che il giudice di appello si era ripetutamente sostituito alla parte nella ricerca delle prove, esercitando in modo irrituale i poteri ufficiosi di cui all’art. 421 c.p.c. Evidenzia al riguardo che il C. si limitò a produrre taluni certificati medici, ad avviso della ricorrente privi di valore probatorio in quanto contenenti giudizi e mere congetture, sicchè la c.t.u. disposta dalla Corte territoriale era caratterizzata da inammissibili fini esplorativi, così come l’ordine di esibizione ad un Ospedale pubblico (ex art. 213 c.p.c.) di una cartella clinica del dipendente, sopperendo così alle lacune istruttorie su quest’ultimo gravanti.

3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 213, 416 e 421 c.p.c., nonchè contraddittoria ed insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia (ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5).

Lamenta che la Corte territoriale, confermò erroneamente quanto ritenuto dal Tribunale circa l’esistenza di significativi spunti di indagine, così da disporre una c.t.u. medico legale, da svolgersi per giunta sulla base di cartella clinica acquisita agli atti attraverso la richiesta ufficiosa ex art. 213 c.p.c., ciò che comunque determinava l’irrimediabile vizio della c.t.u. svolta.

Lamenta che i poteri ufficiosi non possono spingersi sino al punto di sanare decadenze già verificatesi.

4. Con il quarto motivo la società denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonchè illogicità e contraddittorietà della motivazione su un punto decisivo della controversia (ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5), e cioè circa la sussistenza di un nesso di causalità tra le patologie riscontrate e le condizioni di lavoro, accertata dal c.t.u. solo in via probabilistica. Da ciò derivava anche il rigetto della domanda di illegittimità del licenziamento, basata sulla imputabilità a responsabilità del datore di lavoro delle assenze per malattia e conseguente loro irrilevanza ai fini del calcolo del periodo di comporto.

5. I motivi, che per la loro connessione possono congiuntamente esaminarsi, sono in parte inammissibili e per il resto infondati.

Inammissibili in quanto il documento (la c.t.u.) su cui si fondano, risulta solo invocato ma non prodotto (e neppure invocata la sua esatta ubicazione all’interno dei fascicoli di causa).

Al riguardo deve infatti rimarcarsi che il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, producendolo ovvero indicandone la sua esatta ubicazione all’interno dei fascicoli di causa (Cass. sez. un. 3 novembre 2011 n. 22726), al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C. deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto (Cass. ord. 30 luglio 2010 n. 17915).

Quanto alla denunciata violazione dell’art. 213 c.p.c., deve evidenziarsi che la richiesta di documentazione ivi prevista, a differenza dell’ordine di esibizione, non è subordinata all’istanza di parte e nella specie risulta giustificata dal materiale probatorio acquisito.

Nel rito del lavoro, del resto, caratterizzato dall’esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, allorchè le risultanze di causa offrono significativi spunti di indagine (nella specie correttamente ravvisati dalle deposizioni testimoniali, nonchè dalla certificazione medica ritualmente acquisita in sede di merito), occorre che il giudice, anche in grado di appello, ex art. 437 c.p.c., ove reputi insufficienti le prove già acquisite, eserciti il potere – dovere di provvedere di ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale probatorio (nella specie testimonianze e certificati medici), idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, sempre che tali fatti siano stati puntualmente allegati (ex plurimis, Cass. n. 2379 del 2007).

L’esercizio del potere ufficioso ex art. 421 c.p.c. presuppone in sostanza l’opportunità di integrare un quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti, come nella specie (da ultimo: Cass. 11 marzo 2011 n. 5878).

Risulta pertanto legittima anche la nomina del c.t.u., costituendo peraltro l’esercizio di un potere discrezionale rimesso alla discrezionale valutazione del giudice di merito, Cass. 13 marzo 2009 n. 6155.

Avendo il ricorrente allegato e quanto meno in parte provato la sussistenza di condizioni di lavoro potenzialmente dannose, la nomina del c.t.u. non risulta meritevole di censure.

Quanto all’idoneità di essa a costituire prova, deve rilevarsi che, come notato da Cass. n. 3990 del 2006, il giudice può affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente), ed in tal caso la consulenza costituisce essa stessa fonte oggettiva di prova, essendo solo necessario che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche. (Cass. 13 marzo 2009 n. 6155; Cass. 26 novembre 2007 n. 24620; Cass. 15 aprile 2002 n. 5422; Cass. 7 marzo 2001 n. 3343).

5. Il ricorso deve pertanto respingersi.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 50,00 per esborsi, Euro 4.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 5 giugno 2013.

Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2013.

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