Suprema Corte di Cassazione
sezione V
sentenza 11 settembre 2013, n. 37301
Ritenuto in fatto
1. M..B. era chiamata a rispondere, innanzi al Giudice di pace di Roma, del reato di ingiuria, ai sensi dell’art. 594 c.p., commi 1 e 4, per aver offeso l’onore ed il decoro dell’avv. V.W. , proferendo al suo indirizzo le seguenti espressioni: “Lei dice il falso” – “non voglio parlare con questo tizio qua”; con l’aggravante di aver commesso il fatto alla presenza di più persone.
Le espressioni erano state profferite nel corso dell’esame al quale M..B. , in veste di persona offesa-querelante, era stata sottoposta dall’avv. V. , difensore dell’imputata B.A.M. , nell’ambito di un procedimento penale per ingiuria nei confronti della sorella, la stessa M..B. .
Con sentenza del 06/08/2009 il Giudice di pace di Roma assolveva l’imputata, ai sensi dell’art. 530 cpv., per mancanza dell’elemento psicologico e per l’applicabilità, in ogni caso, dell’art. 599 cod. pen..
Pronunciando sul gravame proposto dalla parte civile, il Tribunale di Roma, con la sentenza indicata in epigrafe, confermava la pronuncia impugnata con ulteriori statuizioni di legge.
2. Avverso la pronuncia anzidetta l’avv. V.W. , rappresentato e difeso dall’avv. Naurilio Prioreschi, ha proposto ricorso per cassazione affidato alle ragioni di censura indicate in parte motiva.
Considerato in diritto
1. Con il primo motivo d’impugnazione, parte ricorrente denuncia inosservanza degli artt. 234 e 121 cod. proc. pen., in relazione all’art. 606 n. 1 lett. b) c) e d) cod. proc. pen.. Censura, in particolare, la motivazione nella parte in cui il giudice a quo ha ritenuto che non risultasse che la difesa della parte civile avesse chiesto l’acquisizione di memoria ex art. 121 bensì solo l’acquisizione di sentenze sul rilievo che lo stesso giudice non aveva considerato che, a norma delle richiamate disposizioni processuali, la documentazione della memoria illustrativa poteva essere legittimamente depositata in ogni stato e grado del procedimento, sicché l’avere respinto tale produzione concretizzava atto illegittimo. Del pari illegittimamente era stato ritenuto che i documenti prodotti dalla parte civile non erano acquisibili in quanto evidentemente irrilevanti o ultronei o non pertinenti senza considerare che il primo giudice non aveva espresso alcuna motivazione sulla pertinenza o sulla rilevanza della documentazione prodotta dalla parte civile, aveva respinto tale produzione senza nemmeno leggerla e, quindi, senza nemmeno valutarla.
Con il secondo motivo lo stesso ricorrente denuncia inosservanza dell’art. 594, commi 1 e 4 cod. pen. in relazione all’art. 606 n. 1 lett. b), c) e d) del codice di rito. Censura, in particolare, la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che le espressioni incriminate, ammesse dalla stessa imputata, non integrassero gli estremi del reato di ingiuria sulla base dell’applicazione di una scriminante inesistente nell’ordinamento positivo, con riguardo all’asserito intendimento dell’imputata di reagire alle domande che le venivano rivolte senza volontà di colpire la persona dell’avvocato ed il suo patrimonio morale, ma la posizione di parte che il difensore della sorella in quel momento rappresentava.
2. La prima ragione di censura va disattesa. Se è indubbio, infatti, in linea meramente astratta, il diritto della persona offesa di produrre memoria difensiva e documentazione utile alla sua linea di difesa e, per converso, l’obbligo del giudice di provvedere e di motivare l’eventuale diniego per ritenuta irrilevanza, è pur vero che nel caso di specie la questione è priva di apprezzabile rilevanza e, comunque, è ininfluente. Ed infatti, oltre al rilievo che, come emerge dal testo del provvedimento impugnato, una parte delle sentenze prodotte risultava già acquisita in primo grado, la difesa della persona offesa, attraverso la detta produzione, intendeva dichiaratamente provare l’atteggiamento rancoroso dell’imputata nei confronti della sorella, assistita dallo stesso avv. V. , anche a seguito dell’esito di precedenti procedimenti penali o civili che l’avevano vista soccombente. Ebbene, la condizione di animosità ed accesa conflittualità tra le parti sostanziali del giudizio, ossia le due sorelle B. , anche per ragioni di divisione ereditaria, era fatto pacifico in processo, che, ad ogni modo, rappresentava elemento ininfluente nell’economia del presente giudizio, riguardante esclusivamente la legittimità della reazione verbale dell’odierna imputata alle domande che, in altro procedimento penale, le aveva rivolto l’avv. V. , difensore della sorella B.A.M. , in sede di esame dibattimentale.
3. È certamente fondata, invece, la seconda doglianza relativa alla pronunzia assolutoria dell’imputata per carenza dell’elemento psicologico o, comunque, al proscioglimento della stessa B. per applicazione dell’art. 599 cod. pen., come ritenuto dalla pronuncia di primo grado, interamente confermata dalla sentenza impugnata.
Risulta, infatti, palesemente incongrua ed illogica la motivazione con la quale il giudice a quo, nel riconoscere che le espressioni riportate in rubrica (Lei dice il falso – non voglio parlare con questo tizio qua che l’imputata, persona offesa in altro procedimento a carico della sorella, aveva rivolto all’avv. V. , difensore della congiunta, nel corso dell’esame dibattimentale) avessero contenuto obiettivamente ingiurioso, aveva nondimeno negato “la volontà dell’evento” in capo alla stessa imputata.
Al riguardo, è noto che, per consolidato insegnamento di questa Corte regolatrice, In tema di elemento psicologico del reato di ingiuria non è richiesta la sussistenza dell’”animus iniurandi”, essendo sufficiente il dolo generico che può anche assumere la forma del dolo eventuale, in quanto basta che l’agente, consapevolmente, faccia uso di espressioni o parole socialmente interpretabili come offensive, cioè utilizzate in base al significato che esse vengono oggettiva mente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell’agente (cfr. Cass. Sez. 5, n. 6169 del 19.10.2012, dep 7.2.2013,Rv. 255015; id. Sez. 5 n. 7597 dell’11.5.1999, Rv. 213631, secondo cui in tema di delitti contro l’onore, non è richiesta la presenza di un “animus iniuriandi vel diffamandi”, ma appare sufficiente il dolo generico, che può anche assumere la forma del dolo eventuale, in quanto basta che l’agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, cioè adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell’agente; nello stesso senso, id. Sez. 5 n. 3371 del 29.5.1998, Rv. 211479, secondo cui il reato di ingiuria è punibile a titolo di dolo generico, inteso come volontà di usare espressioni offensive con la consapevolezza dell’attitudine offensiva delle parole usate. La configurabilità del delitto prescinde, quindi, dai motivi a delinquere e dall'”animus nocendi vel iniuriandi” che è del tutto irrilevante perché estraneo alla struttura della fattispecie legale. In conseguenza, il dolo è configurabile, senza necessità di una particolare dimostrazione, qualora l’espressione usata sia autonomamente e manifestamente offensiva, tale, cioè, da offendere, con il suo significato univoco, la dignità della persona).
Orbene, al di là della locuzione lei dice il falso, riferibile – pur nella sua greve formulazione – all’ipotetico convincimento dell’imputata del contenuto inveritiero delle asserzioni del difensore, non è opinabile che l’espressione non voglio parlare con questo tizio qua, nell’esprimere sostanziale disprezzo per la persona del professionista, si traduceva in gratuita offesa alla dignità personale, nella quale era oggettivamente insita – tenuto conto della qualità dell’imputata e del contesto in cui era profferita – la piena consapevolezza della sua attitudine lesiva.
Erronea, inoltre, era la pur gradata applicazione dell’esimente dell’art. 599 cod. pen., posto che la provocazione postula, notoriamente, reazione a fatto ingiusto altrui, che, nel caso di specie, non era certamente ravvisabile, posto che l’odierno ricorrente stava esercitando il diritto di difesa mediante esame della persona offesa, sia pure in forma stringente ed incalzante, le cui modalità, ad ogni modo, spettava solo al giudice sindacare e, eventualmente, moderare.
4. Le rilevate incongruenze ed erronee applicazioni di norme sostanziali si traducono in ragione di nullità della sentenza impugnata che va, dunque, dichiarata, sia pure ai soli effetti civili, nei termini di cui in dispositivo.
P.Q.M.
Annulla agli effetti civili la sentenza impugnata con rinvio al Giudice civile competente per valore in grado d’appello.
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