Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza n. 29093 del 9 luglio 2013
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 6 luglio 2012 il Tribunale di Cagliari, a seguito di richiesta di riesame del decreto del 1 giugno 2012 del gip dello stesso Tribunale che aveva disposto sequestro preventivo su conti correnti, immobili e mobili registrati – richiesta proposta da C. S., indagato ex articolo 4 d.lgs. 74/2000 per avere, quale titolare di una ditta, indicato nelle dichiarazioni per le imposte dirette degli anni 2006, 2007 e 2008 attivi inferiori a quelli reali -, riformava parzialmente il decreto limitando il sequestro alla concorrenza di euro 500.000, avendo ritenuto escludibile l’anno di imposta 2006.
2. Ha presentato ricorso l’indagato, articolandolo su quattromotivi.
Il primo motivo, a proposito dell’anno di imposta 2007, denuncia vizio di motivazione ex articolo 606, primo comma, lettera e, c.p.p. e violazione dell’articolo 273 c.p.p. perchè mancherebbe specifica confutazione delle difese versate nella memoria del 4 giugno 2012.
Il secondo motivo, a proposito dell’anno di imposta 2008, denuncia violazione degli articoli 8 e 56 T.U.I.R. e vizio di motivazione ex articolo 606, primo comma, lettera e, c.p.p., per mancata valutazione di elementi favorevoli al ricorrente, sempre in difetto di confutazione specifica della suddetta memoria.
Il terzo motivo denuncia violazione dell’articolo 321 c.p.p. e mancanza di motivazione perché vi sarebbe stata un’acritica adesione da parte del giudice di merito a quanto esposto dalla Guardia di Finanza in ordine ai ricavi non dichiarati.
Il quarto motivo denuncia contraddittorietà della motivazione e violazione degli articoli 1, comma 143, l. 244/2007 e 322 ter c.p., poiché il sequestro e la confisca devono colpire l’imposta evasa quale profitto del reato mentre nel caso in esame il sequestro ha per oggetto l’importo di euro 500.000 “comprensivo, oltre che dell’imposta evasa, anche del relativi accessori”, laddove l’imposta per gli anni 2007 e 2008 ammonta rispettivamente ad euro 195.768 e ad euro 196.521, gli accessori non sono identificati e se comunque fossero gli interessi e le sanzioni non sarebbero riconducibili al profitto del reato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso non è fondato.
Il primo motivo, anzitutto, denunciando vizio motivazionale ex articolo 606, primo comma, lettera e, c.p.p., incorre in evidente violazione dell’articolo 325, primo comma, c.p.p. Per quanto concerne, poi, la pretesa violazione dell’articolo 273 c.p.p., in realtà il ricorrente tende – come si evince agevolmente dal contenuto della memoria del 4 giugno 2012 inserita nel motivo – a smontare la ricostruzione fattuale effettuata dal giudice di merito tramite una versione alternativa, il che rende inammissibile la doglianza in questa sede. Si osserva, meramente ad abundantiam quindi, che non corrisponde al contenuto dell’ordinanza l’asserto che questa non abbia confutato le difese del ricorrente, (motivazione, pagina 6).
Analoghe considerazioni induce a svolgere il secondo motivo, che pure presenta vizio di motivazione ex articolo 606, primo comma, lettera e, c.p.p., pretermettendo il chiaro dettato del primo comma dell’articolo 325 c.p.p., e, pur facendo riferimento nella rubrica agli articoli 8 e 56 T.U.I.R. come violati, in realtà ha contenuto fattuale (come ancora emerge dalla inserzione del precedente scritto difensivo) perseguendo un terzo grado di merito e comunque non considerando, si rileva sempre ad abundantiam, l’adeguata motivazione dell’ordinanza impugnata sul punto (motivazione, pagina 6).
Il terzo motivo, pur prospettando, accanto a una generica violazione dell’articolo 321 c.p.p., una mancanza dl motivazione che sarebbe riconducibile alla violazione di legge ex articolo 125 c.p.p., in realtà ancora censura il merito de|l’ordinanza, per pervenire all’esclusione del fumus commissi delicti: anche questa doglianza, pertanto, non può che qualificarsi inammissibile.
Il quarto motivo è l’unico del ricorso che non rientra nella categoria della inammissibilità. Si tratta, infatti, chiaramente di una pretesa violazione di legge in ordine al concetto di profitto del reato. Il Tribunale, dopo avere espunto l’anno 2006 dal periodo coperto dal fumus commissi delicti di evasione fiscale, ha rideterminato l’oggetto del sequestro “fino alla concorrenza dell’importo di euro 500.000,00 (comprensivo, oltre che dell’imposta evasa, anche dei relativi accessori)”. Sommando le imposte evase degli anni 2007 e 2008 si perviene infatti all’importo di euro 392.289. Per questo, evidentemente anche se implicitamente, il Tribunale indica la presenza, nell’importo rideterminato, anche degli accessori, che sono, parimenti in modo evidente, gli interessi e le sanzioni correlati alle imposte evase. Che tali accessori non ricadano nel profitto di reato, come prospetta il ricorrente, è stato peraltro escluso dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte, dal momento che, proprio in ipotesi di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, il profitto confiscabile, anche nella forma per equivalente, è costituito da qualsiasi vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato, e quindi è identificabile anche in un risparmio di spesa come quello derivante dal mancato pagamento degli interessi e delle sanzioni dovuti in seguito all’accertamento del debito tributario.
Infatti, da quando sono maturati gli accessori al credito tributario l’attività distrattiva dei beni, finalizzata a rendere infruttuosa la procedura di riscossione, comprende un risparmio di spesa inclusivo non più soltanto della voce principale del debito erariale, ma di tutti gli accessori divenuti esigibili dal fisco; e poiché il profitto, cioè il risparmio illecito del contribuente, va calcolato in riferimento alla totalità del credito dell’erario, è indifferente la natura delle voci che compongono quest’ultimo, poiché la condotta criminosa è analizzata a evitarne il complessivo pagamento (condivisibilmente in tal senso Cass. sez. V, 10 novembre 2011-17 gennaio 2012 n. 1843; cfr. altresì Cass. sez. III, 23 ottobre 2012 n. 45849).
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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