In tema di concorrenza sleale il cd. storno vietato di dipendenti

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|28 maggio 2024| n. 14944.

In tema di concorrenza sleale il cd. storno vietato di dipendenti

In tema di concorrenza sleale, il cd. storno vietato di dipendenti non ricorre ove l’imprenditore avvii una collaborazione professionale con il prestatore d’opera, che abbia posto fine al precedente rapporto di lavoro, disattendendo l’obbligo di preavviso o il divieto di concorrenza contratti con il vecchio datore di lavoro, poiché l’imprenditore che recluti il lavoratore dimissionario non è vincolato al rispetto degli accordi che inerivano al precedente rapporto e l’assunzione in tali circostanze non implica necessariamente una condotta disgregatrice dell’altrui impresa, salvo dimostrare che tale comportamento è univocamente finalizzato all’intenzionale scomposizione dell’organizzazione e della funzionalità dell’unità concorrente, così da menomarne la vitalità economica.

 

Ordinanza|28 maggio 2024| n. 14944. In tema di concorrenza sleale il cd. storno vietato di dipendenti

Data udienza 10 aprile 2024

Integrale

Tag/parola chiave: Concorrenza (diritto civile) – Sleale – Atti di concorrenza – Correttezza professionale (uso di mezzi non conformi alla) concorrenza sleale – Atti contrari alla correttezza professionale – Storno di dipendenti – Rilevanza – Condizioni – Fondamento.

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Presidente

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere – Rel.

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 10821 R.G. anno 2023 proposto da:

Banca (…) Spa, rappresentata e difesa dall’avvocato Cl.Sc.;

– ricorrente –

contro

Banca (…) Spa, rappresentata e difesa dall’avvocato Si.Ba. e dall’avvocato Ma.Co.;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 34/2023 depositata il 12 gennaio 2023 della Corte di appello di Torino.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 aprile 2024 dal consigliere relatore Massimo Falabella.

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FATTI DI CAUSA

1. – Con atto di citazione notificato il 17 luglio 2019 Banca (…) Spa ha evocato in giudizio, dinanzi al Tribunale di Torino, Banca (…) Spa lamentando che quest’ultima aveva posto in atto, in proprio danno, di atti di concorrenza sleale consistenti nello storno di dipendenti. Ha quindi proposto plurime domande nei confronti della predetta Banca (…) tra cui, eminentemente, quelle di inibitoria e di risarcimento del danno. Ha esposto: che nel corso degli ultimi decenni aveva sviluppato in modo particolare il comparto del c.d. private banking, caratterizzato da un alto livello di personalizzazione dell’offerta, indirizzato a clienti privati di alto profilo, con patrimoni gestiti di valore mediamente superiore a Euro 500.000,00; che, per poter interpretare al meglio le esigenze della clientela primaria, aveva quindi proceduto negli ultimi decenni all’assunzione di private banker particolarmente qualificati, sostenendo a tal fine ingenti costi e investimenti, sia per il loro ingaggio, che per la loro formazione; che in data 10 agosto 2017 Banca (…) aveva dovuto assistere allo smembramento del Centro Private di B 2, per effetto dello storno, ad opera di Banca (…) Spa, di due consulenti finanziari, su sei addetti al predetto Centro; che i predetti consulenti, Fe.Ma., responsabile del Centro, ed Sb.Al., gestore presso il Centro, si erano contemporaneamente dimessi in data 9 agosto 2017, con effetto dal giorno successivo, momento a partire dal quale avevano avviato un rapporto di lavoro con Banca (…); che le dimissioni erano state rassegnate senza addurre alcuna giusta causa; che i nominati Fe.Ma. e Sb.Al. avevano preso ad operare con la qualifica di private banker nelle stesse zone in cui erano stati attivi negli anni precedenti; che la contestualità spaziale e temporale delle dimissioni lasciava presumere che i colloqui tra la banca convenuta e i lavoratori, finalizzati alla loro assunzione, fossero avvenuti in un momento in cui era ancora in essere il rapporto con la società attrice; che i consulenti avevano contratto patti di non concorrenza, efficaci al momento della cessazione del rapporto di lavoro, in forza dei quali si erano impegnati, fermo l’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c., a non svolgere, nell’ambito della Regione dell’ultima sede lavorativa e per i dodici mesi successivi alla cessazione del rapporto, alcuna attività in favore di società di gestione, assicurazioni, banche e SIM; che l’attività concorrenziale illecita aveva trovato ulteriore espressione nella sollecitazione svolta dai consulenti dimissionari nei confronti dei clienti di Banca (…) con cui avevano avuto rapporti, tanto che nei mesi successivi erano pervenuti numerosi ordini di disinvestimento da parte dei clienti seguiti direttamente dai due ex dipendenti della banca attrice; che il pregiudizio patrimoniale sofferto ammontava a Euro 9.782.979,73, per lucro cessante e a Euro 70.770,00 per danno emergente.

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Nella resistenza di Banca (…) il Tribunale di Torino ha respinto le domande attrici.

2. – Avverso la sentenza di primo grado ha proposto appello Banca (…).

Il gravame, trattato nel contraddittorio con l’originaria convenuta, costituitasi anche in appello, è stato respinto dalla Corte di Torino con sentenza del 12 gennaio 2023.

3. – Quest’ultima pronuncia è oggetto del ricorso per cassazione di Banca Monte di Paschi di Siena. L’impugnazione costa di sei motivi ed è resistita con controricorso da Banca (…).

Sono state depositate memorie.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Col primo motivo viene addebitata alla sentenza impugnata la violazione o falsa applicazione dell’art. 2598, n. 3, c.c., anche in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., per avere la Corte di appello ritenuto non provato uno sviamento di dipendenti direttamente riferibile a Banca (…).

Il secondo motivo, che può esaminarsi unitamente al primo, lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 2598, n. 3, c.c., per avere il Giudice distrettuale escluso l’illiceità degli effetti disgreganti della condotta concorrenziale di Banca (…).

1.1. – Nell’ampia parte della motivazione che viene impugnata coi due mezzi di censura in esame la Corte di appello ha in sintesi rilevato: che la ricerca del personale da parte di Banca (…) non aveva avuto luogo attraverso contatti o sollecitazione diretta dei due private banker, all’epoca impiegati presso il Centro di B 2 di MPS, avendo Banca (…) in data 15 novembre 2016 sottoscritto un contratto con (…) Srl per la ricerca di addetti con tale qualifica; che nelle due schede relative a Fe.Ma. e Sb.Al. era indicato come fossero entrambi alla ricerca di una sistemazione lavorativa alternativa, in particolare Fe.Ma. “a causa della nota situazione di MPS”; che all’epoca Banca (…) versava in una condizione di grave difficoltà; che il piano di ristrutturazione 2017-2021 comunicato dalla detta società alle rappresentanze sindacali nel mese di luglio 2017 prevedeva una riduzione di 5.500 risorse, da attuarsi prevalentemente attraverso l’attivazione di manovre di accompagnamento all’uscita e non era possibile sostenere che il detto piano di riduzione non avrebbe interessato la posizione dei private banker; che nel primo semestre del 2017, epoca in cui si collocherebbero i contatti tra (…), Fe.Ma. e Sb.Al., vi erano “tutti i presupposti per rendere questi dipendenti interessati a valutare nuove opportunità di lavoro, senza necessità di ricercare in condotte illecite della concorrente i motivi di una decisione altrimenti inspiegabile”; che ciò risultava confermato dall’esodo verso altri istituti di credito, tra il 2016 e il 2017, di ben settanta private banker di Banca (…), di cui solo due transitati a Banca (…), oltre che dalla circostanza per cui le dimissioni dalla società appellante, nell’arco di quattro o cinque anni, avevano interessato circa la metà dei private banker di MPS (duecento su quattrocento); che le dimissioni di Fe.Ma. e Sb.Al. non erano state motivate in quanto “le presumibili valutazioni, operate riguardo alle migliori o più sicure prospettive di carriera presso un altro datore di lavoro, non integrano, con evidenza, una giusta causa di dimissioni”; che non poteva condividersi la deduzione di Banca (…), secondo cui l’offerta da parte di Banca (…) prevedeva condizioni “fuori mercato” (assunzione dell’impegno, da parte del nuovo datore di lavoro, di tenere indenni i due private banker dal pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, dal pagamento della penale prevista dal patto di non concorrenza e dalle spese legali che gli stessi avessero dovuto sostenere a causa di giudizi intentati nei loro confronti dall’odierna ricorrente); che in base al notorio “il personale addetto a mansioni di consulenza finanziaria (è) vincolato al proprio datore di lavoro da patti di non concorrenza, che prevedono il pagamento di penali spesso di non trascurabile entità, sicché l’impresa concorrente interessata alla loro assunzione, onde evitare che quella previsione contrattuale abbia l’effetto di paralizzarne il trasferimento, può – con varie modalità – assumersi quel costo”; che, pertanto, l’assunzione dei due dipendenti doveva ritenersi attuata “attraverso modalità del tutto neutre”; che non vi era stata alcuna offerta di prova da parte della banca appellante in ordine alle conseguenze pregiudizievoli da essa sopportate, alle difficoltà di reperire altri dipendenti in sostituzione di quelli dimissionari, alle ripercussioni negative sull’intera, o su una parte, dell’organizzazione aziendale (ciò in una situazione in cui la stessa odierna istante aveva affermato di avere avuto all’epoca in B e zone limitrofe ben cinque Centri Private, con un organico di ventidue consulenti finanziari, a cui avrebbe quindi potuto attingere per sopperire alle vacanze createsi presso il Centro di B 2); che Fe.Ma. e Sb.Al. non rappresentavano “figure professionali di così rara presenza sul mercato del lavoro”, appartenendo i medesimi a una categoria di operatori presenti presso tutti gli istituti di credito, le assicurazioni, le SIM o le società di consulenza e gestione del risparmio privato; che la sostituzione dei due consulenti, attraverso la ricerca esterna, ovvero attraverso la specifica formazione di figure interne, non integrava un impegno eccedente l’ordinario, atteso che la fuoriuscita di dipendenti, per le più svariate ragioni, rappresentava un evento fisiologico per qualsiasi organizzazione imprenditoriale; che Banca (…) aveva dedotto di avere assunto, tra il 2016 e la prima metà del 2019, proprio nell’ambito della sua attività di ampliamento del settore private, ben ventuno private banker, provenienti da dieci diversi istituti di credito, di cui solo due provenienti da Banca (…), il che inequivocabilmente deponeva per l’assenza di un specifico intento diretto a depauperare MPS delle sue professionalità in quel settore.

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1.2. – Secondo la giurisprudenza di questa Corte, per la configurabilità di atti di concorrenza sleale contrari ai principi della correttezza professionale, commessi per mezzo dello storno di dipendenti, è necessario che l’attività distrattiva delle risorse di personale dell’imprenditore sia stata posta in essere dal concorrente con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione e alla struttura produttiva del concorrente (Cass. 17 febbraio 2020, n. 3865, ove si precisa che il pregiudizio si attua disgregando in modo traumatico l’efficienza dell’organizzazione aziendale del competitore e che a tale danno si correla il conseguimento di un vantaggio competitivo indebito; cfr. pure: Cass. 29 dicembre 2017, n. 31203; Cass. 23 maggio 2008, n. 13424; Cass. 22 luglio 2004, n. 13658; Cass. 3 luglio 1996, n. 6079): il proposito supposto – quindi – deve essere quello di procurare un danno eccedente il normale pregiudizio che ad ogni imprenditore può derivare dalla perdita dei dipendenti o collaboratori in conseguenza della loro scelta di lavorare presso altra impresa (cfr.: Cass. 29 dicembre 2017, n. 31203, cit., in motivazione; Cass. 30 ottobre 2009, n. 23045, non massimata in CED; Cass. 11 marzo 2002, n. 3463, in motivazione; Cass. 25 luglio 1996, n. 6712).

Un tale orientamento si spiega con l’esigenza di salvaguardare sia il diritto al lavoro e alla sua adeguata remunerazione (artt. 4 e 36 Cost.), sia il diritto alla libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.): deve considerarsi, in proposito, che la mera assunzione di personale proveniente da un’impresa concorrente non può essere considerata di per sé illecita, essendo espressione del principio di libera circolazione del lavoro e della libertà di iniziativa economica (cfr., in particolare, la cit. Cass. 17 febbraio 2020, n. 3865).

1.3. – Ora, il dolo, come la colpa, non è elemento costitutivo della fattispecie di cui all’art. 2599 c.c.: secondo la giurisprudenza risalente di questa Corte, non è necessario il concorso del dolo o della colpa perché possa ritenersi la sussistenza di atti di concorrenza sleale e perché possa essere inibita la continuazione di essi a norma degli artt. 2598 e 2599 c.c.: una condotta dolosa o colposa e invece richiesta dal primo comma dell’art. 2600 c.c. per la condanna al risarcimento dei danni e perché possa essere ordinata la pubblicazione della sentenza (Cass. 6 aprile 1966, n. 903). Ciò che richiede l’art. 2599, n. 3, c.c., cui è riconducibile la fattispecie dello storno dei dipendenti, è la sola condotta materiale consistente nel compimento di atti non conformi alla correttezza professionale idonei a danneggiare l’altrui azienda.

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In tal senso, all’animus nocendi va assegnato il ruolo di individuare, in relazione alle circostanze del caso e su di un piano meramente presuntivo, il punto di emersione della obiettiva difformità della condotta dell’imprenditore alla correttezza professionale: onde “lo storno di dipendenti intanto assurge ad atto di concorrenza sleale, ossia difforme dai principi della correttezza professionale, in quanto sia posto in essere con modalità tali da non potersi giustificare se non supponendo nell’autore un animus nocendi, ossia appunto l’intenzione di disgregare e disorganizzare l’azienda del concorrente” (Cass. 17 gennaio 1974, n. 125, in motivazione).

Mentre non può considerarsi intrinsecamente contraria alla correttezza professionale la condotta dell’imprenditore che si adoperi perché il lavoratore dell’impresa concorrente si trasferisca alle proprie dipendenze, deve reputarsi illecito, in quanto contrario alla nominata correttezza, l’attività che, attraverso lo storno, risulti preordinata a danneggiare l’altrui azienda. E tuttavia, la volontà di nuocere non rileva in sé, perché, se così fosse, dovrebbe conferirsi rilievo ai meri intenti, e cioè ai propositi privi di declinazione espressiva: come è stato osservato, l’elemento soggettivo non può rendere illecito un atto che oggettivamente non sia ingiusto (cfr. Cass. 6 maggio 1980, n. 2996, in motivazione). L’animus nocendi rileva, piuttosto, in quanto si sia tradotto in comportamenti contrari ai principi della correttezza professionale obiettivamente contrassegnati dall’attitudine a disarticolare l’altrui attività imprenditoriale. In definitiva, ai fini dell’individuazione della fattispecie di illecito che qui interessa, contano gli elementi circostanziali della condotta di storno: e ciò in quanto solo tali elementi possono colorare di antigiuridicità un comportamento altrimenti conforme al diritto.

Ciò spiega come la giurisprudenza di legittimità si sia preoccupata, da tempo, di individuare elementi estrinseci della condotta da cui desumere l’illiceità dello storno. Così, secondo la cit. Cass. 17 febbraio 2020, n. 3865, possono rilevare: le modalità del passaggio dei dipendenti e collaboratori dall’una all’altra impresa, che non può che essere diretto, ancorché eventualmente dissimulato, per potersi configurare un’attività di storno; la quantità e la qualità del personale stornato, la sua posizione nell’ambito dell’organigramma dell’impresa concorrente; le difficoltà ricollegabili alla sua sostituzione e i metodi adottati per indurre i dipendenti o collaboratori a passare all’impresa concorrente.

1.4. – Ciò detto i due mezzi di censura in esame risultano essere in parte inammissibili e in parte infondati.

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Sono inammissibili laddove sono intesi a sindacare gli accertamenti di fatto della Corte di appello prospettando, in buona sostanza, un’erronea ricognizione della fattispecie concreta mediante le risultanze di causa, la quale inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito (Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass. 11 gennaio 2016, n. 195). Sotto tale profilo restano insindacabili, nella presente sede, gli accertamenti di fatto relativi alle condotte poste in essere da Banca (…) per assumere i due dipendenti e alle modalità con cui hanno avuto luogo le dimissioni dei medesimi da Banca (…). Tanto può dirsi anche con riguardo al tema, evocato dalla ricorrente, della sostituibilità delle professionalità di cui erano portatori i dipendenti dimissionari, ritenuta esistente dal Giudice di appello, e alla questione, pure sollevata in ricorso, circa il rilievo che poteva assumere, nella circostanza, la consistenza numerica del supposto storno: consistenza che la Corte di merito ha apprezzato non isolatamente, ma insieme ad altre circostanze, pure rivelatrici dell’insussistenza dell’illecito concorrenziale.

I due motivi sono invece infondati nella misura in cui si scontrano con una pronuncia di merito – quella impugnata – che risulta essersi conformata ai principi giuridici sopra richiamati.

1.5. – Un discorso a parte va riservato ad altra censura, effettivamente riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c., e vertente sull’obbligo, contratto da Banca (…), di rivalere i nuovi dipendenti di quanto i medesimi avrebbero dovuto corrispondere a Banca (…) per il mancato preavviso e l’inosservanza del patto di non concorrenza.

Detta doglianza è infondata.

All’inadempimento posto in atto da chi sia vincolato da precisi obblighi nei confronti di un determinato imprenditore può certo affiancarsi la responsabilità, anche per concorrenza sleale, di un distinto soggetto economico che tragga vantaggio dalla predetta inadempienza: tale beneficio non è tuttavia tale da far ritenere che la responsabilità in parola sempre sussista (cfr. Cass. 20 maggio 2017, n. 13550, in motivazione). Così, non può considerarsi intrinsecamente illecito il comportamento dell’imprenditore che avvii una collaborazione professionale col prestatore d’opera che abbia posto fine al precedente rapporto di lavoro e abbia disatteso l’obbligo di preavviso o il divieto di concorrenza contratti col vecchio datore di lavoro: ciò in quanto, in linea di principio, l’imprenditore che recluti il lavoratore dimissionario non è vincolato al rispetto degli accordi che inerivano al rapporto cui tale soggetto era legato e, comunque, anche in tali circostanze l’assunzione non è il segno univoco della condotta disgregatrice di cui si è in precedenza detto. Conclusioni dello stesso segno si impongono per l’ipotesi in cui il detto imprenditore assuma il prestatore d’opera facendosi carico delle somme da questo contrattualmente dovute al precedente suo datore di lavoro per il mancato rispetto dell’obbligo di preavviso o del divieto di concorrenza. Nemmeno tale impegno è di per sé espressione di quel comportamento intenzionalmente diretto a scomporre l’organizzazione e la funzionalità dell’unità concorrente che è necessario per delineare la fattispecie di storno: esso potrebbe semmai rilevare, ai fini che qui interessano, ove si inscriva in un più ampio disegno diretto a menomare l’impresa concorrente nella sua vitalità economica; questa evenienza non è stata però accertata dalla Corte di appello, la quale ha anzi evidenziato, come si visto, che la migrazione dei due dipendenti fu verosimilmente determinata dalle difficili condizioni in cui versava, all’epoca, Banca (…).

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Altra questione è se, al di fuori del caso dello storno, la pattuizione tra il lavoratore e il nuovo datore di lavoro avente ad oggetto il pagamento della somma corrispondente all’indennità di mancato preavviso e alla penale convenuta per la violazione del patto di non concorrenza possa assumere un autonomo rilievo quale condotta contraria ai principi della correttezza professionale ex art. 2598, n. 3 c.c., integrando una declinazione specifica dell’illecito aquiliano consistente nella cooperazione all’inadempimento altrui. Il tema è però estraneo ai due motivi di ricorso, dal momento che in quest’ultimo tale condotta è prospettata come indice sintomatico del proposito disgregativo posto in essere dall’imprenditore concorrente (cfr., segnatamente, pag. 28 dell’atto impugnatorio) e, del resto, la stessa sentenza impugnata dà atto di come, in appello, la questione fosse stata posta avendo riguardo proprio a tale intento (pag. 15).

1.6. – I primi due motivi vanno dunque disattesi.

2. – Il terzo motivo prospetta la violazione o falsa applicazione degli artt. 98 e 99 c.p.i. per avere ritenuto il Giudice di appello non provato l’utilizzo, da parte di Banca (…), di informazioni riservate appartenenti a Banca Monte di Paschi di Siena.

2.1. – Il mezzo di censura attiene alla parte della sentenza impugnata con cui è stato escluso che ricorresse la fattispecie della sottrazione di informazioni riservate. La Corte di appello ha in proposito rimarcato la carenza di allegazioni da parte della banca appellante giacché non era stato precisato quali informazioni aziendali riservate relative ai clienti, appartenenti al patrimonio di conoscenze personali del consulente finanziario, addetto a quella clientela, fossero custodite dalla banca e quali misure dirette ad assicurarne la protezione fossero state adottate.

2.2. – Sostiene chi ricorre che i due consulenti assunti da Banca (…), proprio per il ruolo che ricoprivano, “avevano accesso a informazioni e documenti aventi anche un rilevante valore economico, tali da consentire un approccio alla clientela di particolare efficacia (la lista clienti, i loro investimenti e interessi, le condizioni applicate, lo “storico” del relativo rapporto con l’istituto, le loro esigenze e capacità di risparmio/investimento, ecc.)”: onde la Corte territoriale avrebbe dovuto applicare il principio per cui integra gli estremi dello sviamento di clientela la condotta posta in essere da un imprenditore che, per il tramite di propri dipendenti già al servizio di un concorrente, si appropri di tabulati recanti i nominativi di clienti e distributori di quest’ultimo, essendo irrilevante la circostanza che detti nominativi fossero già noti al medesimo imprenditore ed a tali dipendenti, trattandosi di informazioni comunque riservate e, come tali, non divulgabili.

2.3. – Il motivo è inammissibile.

2.4. – Esso non si misura con la sentenza impugnata la quale, facendo applicazione della disciplina dei segreti aziendali (artt. 98 e 99 c.p.i.) di cui è stata in questa sede denunciata la violazione e falsa applicazione, ha conferito rilievo anche alla mancata allegazione delle misure dirette a mantenere segrete le informazioni di cui è stato lamentato l’utilizzo: in tal modo la Corte di appello ha individuato in tale mancata allegazione un dato preclusivo al riconoscimento della tutela invocata. È da ricordare, in proposito che, a norma dell’art. 98 c.p.i., costituiscono oggetto di tutela le informazioni aziendali e le esperienze tecniche industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del detentore, ove tali informazioni, oltre ad essere segrete e ad avere valore economico in quanto tali, “siano sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete”. La mancata impugnazione dell’enunciazione relativa alle misure cui sarebbero state sottoposte le informazioni rende inattaccabile la decisione, visto che Banca (…) non può aspirare al riconoscimento della tutela invocata in assenza di una delle condizioni previste dalla richiamata norma.

3. – Col quarto motivo si denuncia per cassazione la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. per essere stata esclusa, da parte della sentenza impugnata, con erronea applicazione del ragionamento presuntivo, la prova dell’attività di storno di clientela imputabile ai consulenti finanziari.

3.1. – È da rilevare che la Corte di appello, nel prendere in esame il numero dei clienti di Banca (…) transitati a Banca (…) e il valore delle correlative “masse patrimoniali trasferite”, ha dato atto della correlazione causale esistente tra tali dati e il trasferimento dei due private banker; ha sottolineato che tuttavia questo solo elemento non era di per sé idoneo e sufficiente a dimostrare “un’attività di sviamento della clientela posta in essere da Banca (…), avvalendosi dell’attività dei due ex dipendenti di Banca (…), attuata con modalità illecite, cioè contrarie ai principi della correttezza professionale”. Il fatto noto (il passaggio di una parte della clientela, rappresentante circa il 30% delle masse patrimoniali gestite dai due private banker) non consentiva, ad avviso della Corte di merito, di inferire alcunché quanto alle modalità attraverso le quali i clienti avrebbero maturato la loro decisione. Infatti, non era stato né allegato né provato che vi fosse stata una sollecitazione al trasferimento delle posizioni presso Banca (…) da parte dei due consulenti, prima o dopo il loro passaggio alle dipendenze del nuovo datore di lavoro, e che tale sollecitazione fosse stata posta in essere con modalità non conformi ai principi della correttezza professionale.

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3.2. – Il motivo di ricorso censura lo scorretto uso del ragionamento presuntivo avendo riguardo ai requisiti di gravità, precisione e concordanza che si sarebbe dovuto annettere a specifiche evenienze.

3.3. – Ora, “(l) e presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice” ex art. 2729, comma 1, c.c.; e in tale prospettiva questa Corte ha avuto modo di evidenziare che spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità (Cass. 5 agosto 2021, n. 22366, la quale precisa, poi, che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio; cfr. pure: Cass. 26 febbraio 2020, n. 5279; Cass. 27 ottobre 2010, n. 21961).

L’ammissibilità di una censura del ragionamento presuntivo avendo riguardo alle condizioni della gravità, precisione e concordanza, è stata, per la verità, riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, le Sezioni Unite di questa Corte (sulla scorta di alcuni precedenti: per tutti, Cass. 4 agosto 2017, n. 19485) hanno evidenziato che la denuncia di violazione o di falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2729 c.c. si può prospettare allorquando – caso scolastico – il giudice di merito contraddice il disposto della richiamata norma affermando che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni che non siano gravi, precise e concordanti, e quando il giudice di merito fonda la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota, così sussumendo sotto la norma dell’art. 2729 c.c. fatti privi di quelle caratteristiche e, quindi, incorrendo in una sua falsa applicazione, giacché dichiara di applicarla assumendola esattamente nel suo contenuto astratto, ma lo fa con riguardo ad una fattispecie concreta che non si presta ad essere ricondotta sotto tale contenuto, cioè sotto la specie della gravità, precisione e concordanza (Cass. Sez. U. 24 gennaio 2018, n. 1785, in motivazione, punto 4.1; nel medesimo senso che la denuncia, in cassazione, di violazione o falsa applicazione del citato art. 2729 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., può prospettarsi quando il giudice di merito affermi che il ragionamento presuntivo può basarsi su presunzioni non gravi, precise e concordanti ovvero fondi la presunzione su un fatto storico privo di gravità o precisione o concordanza ai fini dell’inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota: Cass. 21 marzo 2022, n. 9054). E tuttavia, il ricorso in esame non prospetta alcuna di queste ipotesi: il che può facilmente comprendersi, dal momento che la decisione impugnata, per la parte che qui interessa, non si fonda su alcun ragionamento presuntivo; è piuttosto l’istante a dolersi del mancato impiego di esso. In tale evenienza il provvedimento è sindacabile non già a norma dell’art. 360, n. 3, c.p.c. (come pretenderebbe la ricorrente), ma semmai, nei ristretti limiti di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c., per mancato esame di fatti storici, siccome veicolati da elementi indiziari non esaminati e dunque non considerati dal giudice sebbene decisivi, oltre che per la presenza di una motivazione che non sia rispettosa del minimo costituzionale (cfr. Cass. 19 aprile 2021, n. 10253; nel senso che la denunciata mancata applicazione di un ragionamento presuntivo che si sarebbe potuto e dovuto fare, ove il giudice di merito non abbia motivato alcunché al riguardo, non è deducibile come vizio di violazione di norma di diritto, bensì solo ai sensi e nei limiti dell’art. 360, n. 5 c.p.c., cioè come omesso esame di un fatto secondario: Cass. 6 luglio 2018, n. 17720). È invece escluso che in sede di legittimità la critica alla sentenza che non abbia valorizzato taluni elementi, ritenuti indiziari, possa consistere nella diversa ricostruzione delle circostanze fattuali o nella mera prospettazione di una data inferenza probabilistica.

In tema di concorrenza sleale il cd. storno vietato di dipendenti

3.4. – La ricorrente non ha fatto questione dell’omesso esame di fatto decisivo (cosa che le avrebbe oltretutto imposto non solo di indicare il medesimo quale “fatto storico”, ma anche di precisare il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risultasse esistente, il “come” e il “quando” tale fatto fosse stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”: Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054; Cass. 29 ottobre 2018, n. 27415). L’istante pone piuttosto in discussione – ma ciò non è consentito in questa sede – il giudizio di fatto della Corte di merito, la quale ha ritenuto non significativa, sul piano inferenziale, la circostanza del trasferimento a Banca (…) di diversi propri clienti che appartenevano al portafoglio dei private banker Fe.Ma. e Sb.Al.: secondo il Giudice distrettuale, infatti, “la fiducia nella competenza professionale del consulente e il rapporto personale con lui instaurato” rappresentano “uno dei fattori preponderanti nella scelta, da parte del cliente, della banca cui affidarsi per i propri investimenti; per cui una non trascurabile percentuale della clientela tenderà a seguire il proprio consulente, una volta appreso, in qualsiasi forma, del suo passaggio ad altro datore di lavoro, anche in assenza dell’attivazione nei suoi confronti di specifiche iniziative volte ad ottenerne il passaggio all’impresa concorrente”.

3.5. – Il quarto motivo è così inammissibile.

4. – Il quinto motivo imputa alla sentenza impugnata la violazione degli artt. 1434, 1435 e 1438 c.c. nonché dell’art. 2125 c.c. in relazione all’art. 2598 c.c., facendo questione della sussistenza dell’animus nocendi in capo a Banca (…) e del ragionevole convincimento dell’invalidità del patto di non concorrenza che vincolava i consulenti finanziari stornati.

4.1. – Il mezzo di censura investe la pronuncia impugnata nella parte in cui ha attribuito rilevanza alla dubbia validità del patto di non concorrenza. Ha affermato la Corte di merito che, “esclusa per le ragioni già in precedenza esposte la ravvisabilità della fattispecie dello storno, la circostanza della consapevolezza da parte di Banca (…) della sottoscrizione da parte dei due private banker di un patto di non concorrenza con Banca (…) diventa un elemento del tutto neutro”. Dopo aver precisato che, come osservato dalla stessa banca appellante, la questione della validità del patto in questione doveva ritenersi ininfluente sulla decisione, il Giudice del gravame ha evidenziato che in sede giudiziale detto patto era stato ritenuto affetto da un vizio del consenso; si legge ancora nella sentenza impugnata: “La validità del patto rappresentava quindi una questione certamente controvertibile al momento dell’assunzione di Fe.Ma. e Sb.Al. da parte di Banca (…) e ne è conferma la circostanza che i giudizi intentati proprio dai due lavoratori in questione abbiano avuto esito a loro favorevole, con conseguente declaratoria di nullità del patto, per contrasto con l’art. 2125 c.c., sia in primo grado, dinanzi al Tribunale di Bologna, che poi dinanzi alla Corte di appello, mentre sarebbe ancora pendente il giudizio di cassazione”.

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4.2. – Il mezzo è inammissibile.

4.3. – Anzitutto, e in via assorbente, il giudizio sulla supposta invalidità del patto di non concorrenza è speso per dar corpo a una motivazione ulteriore rispetto a quella basata sulla non configurabilità, in concreto, della fattispecie di storno. Trattando dei primi due motivi di ricorso si è detto che la sentenza non merita censura nella parte in cui ha escluso che, in sostanza, la condotta di Banca (…) consistente nell’assunzione del peso economico della penale convenuta per l’inosservanza del patto di non concorrenza concluso dai due dipendenti con Banca (…) fosse espressiva dello storno. Ciò posto, va fatta applicazione del principio per cui qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, il mancato accoglimento delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (Cass. 11 maggio 2018, n. 11493; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2108).

In secondo luogo, la censura è intesa comunque a sovvertire un giudizio di fatto della Corte di appello circa la dubbia validità del patto di non concorrenza: giudizio oltretutto fondato sull’evidenza di due conformi decisioni rese in un separato giudizio vertente proprio su quel patto. Tale giudizio di fatto esula, come è ovvio, dal sindacato di legittimità.

4.4. – Il quinto motivo censura la sentenza impugnata anche per l’affermazione, ivi contenuta, secondo cui ai fini dell’accertamento della concorrenza sleale occorre acquisire la prova di comportamenti illeciti e di tentativi di sviamento della clientela, “non potendo la sussistenza di tali caratteri desumersi dalla mera violazione del patto, che può al più avere una rilevanza meramente indiziaria, valutabile unitamente ad altri elementi di prova”. Si oppone che l’impresa, consapevole dell’esistenza di un patto di non concorrenza, che adibisca il lavoratore stornato all’attività dal patto preclusa, contestualmente accollandosi i rischi economici dell’eventuale condanna del lavoratore al pagamento della penale, “oltre a concorrere nell’illecito dell’ex dipendente, evidenzia l’intento di danneggiare la concorrente, ritenendo di poter compensare i costi del patto di non concorrenza con i vantaggi che lo storno del dipendente è in grado di apportare attraverso l’attività di sviamento della clientela seguita in precedenza per conto dell’ex datore di lavoro”.

Va osservato, al riguardo, che resta però insuperabile la ratio decidendi basata sulla non configurabilità dello storno. Si è già detto che, con l’atto di appello, l’accordo relativo alla penale convenuta per l’inosservanza del patto di non concorrenza era stata prospettata proprio quale indice sintomatico della condotta di storno (avendo cioè riguardo alla volontà di disarticolare la struttura organizzativa dell’odierna ricorrente): e si è anche detto che, sotto tale specifico profilo, la censura incentrata sulle pattuizioni intercorse tra i due private banker e Banca (…) non può trovare accoglimento (cfr. par. 1.5).

Non solo: la doglianza di cui qui si discute andrebbe comunque disattesa ove si prendesse in considerazione la seconda delle rationes decidendi sopra richiamate: quella fondata sull’obiettiva controvertibilità del patto di non concorrenza, la quale non è stata efficacemente aggredita sul versante fattuale.

5. – Col sesto motivo si deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., non aver la Corte di merito esaminato gli elementi fattuali dedotti in giudizio, ritenuti pacifici, nel loro complesso, al fine di apprezzare il valore dei medesimi quali elementi rivelatori dell’animus nocendi.

5.1. – Quest’ultima censura investe la sentenza impugnata laddove è in essa osservato, per un verso, che il sesto motivo di appello era privo di autonomia rispetto agli altri, consistendo in un “richiamo di sintesi” delle censure svolte nei confronti della pronuncia del Tribunale, senza l’aggiunta di nuove o più specifiche argomentazioni, e, per altro verso, che le ragioni di rigetto dei singoli motivi d’appello non erano il frutto di una considerazione atomistica dei fatti allegati dall’odierna appellante, ma dell’accertamento dell’impossibilità di attribuire a quei fatti, ciascuno singolarmente considerato, un valore sintomatico della denunciata condotta di concorrenza sleale.

5.2. – Il detto motivo di appello, in quanto “privo di autonomia” rispetto agli altri, è stato evidentemente ritenuto inammissibile. Parte ricorrente non ne riproduce, però, perlomeno nelle parti salienti, il contenuto: sicché la doglianza fatta valere col ricorso per cassazione deve ritenersi a sua volta inammissibile. Infatti, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di indicare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Cass. 6 settembre 2021, n. 24048; Cass. 29 settembre 2017, n. 22880; Cass. 20 settembre 2006, n. 20405).

6. – Il ricorso è respinto.

7. – Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

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P.Q.M.

La Corte,

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 15.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1a Sezione Civile, in data 10 aprile 2024.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2024.

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