Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|18 gennaio 2024| n. 1900.
L’impresa familiare e il dubbio di costituzionalità nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio
L’art 230 bis c.c. – per il quale il familiare (ovvero il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo, in base al terzo comma del suddetto articolo) che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare e ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato – pone concreti dubbi di costituzionalità nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio per violazione degli articoli 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione nonché per violazione dell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea e dell’art. 117, comma 1, Cost. in riferimento agli artt. 8 e 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Ordinanza|18 gennaio 2024| n. 1900. L’impresa familiare e il dubbio di costituzionalità nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio
Data udienza 24 ottobre 2023
Integrale
Tag/parola chiave: Impresa familiare – Art. 230 bis c.c. – Condanna – Produzione di vino – Attività di ricezione turistica – Convivenza – Famiglia legittima – Revisione – Lavoro subordinato – More uxorio – Esercizio congiuntivo – Orari predeterminati – Continuità della presenza in azienda – Cass. n. 13849/2002
REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati
Dott. D’ASCOLA PASQUALE Presidente Aggiunto
Dott. CIRILLO ETTORE Presidente di Sezione
Dott. PATTI ADRIANO PIERGIOVANNI Consigliere
Dott. LEONE MARIA MARGHERITA Consigliere
Dott. GIUSTI ALBERTO Consigliere
Dott. CIRILLO FRANCESCO MARIA Consigliere
Dott. LAMORGESE ANTONIO PIETRO Consigliere
Dott. CRUCITTI ROBERTA Consigliere
Dott. MAROTTA CATERINA Rel. Consigliere
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso 19315/2018 proposto da:
Ub.Ir., elettivamente domiciliata in Roma, Via Bo. 14, presso lo studio dell’avvocato Ma.Fe., rappresentata e difesa dall’avvocato Ci.Na.;
– ricorrente –
contro
Du.Cr. + Altri Omessi, elettivamente domiciliati in Roma, Via (…), presso lo studio dell’avvocato Ri.Ce. che li rappresenta e difende;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 520/2017 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 11/04/2018.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/10/2023 dal consigliere MAROTTA CATERINA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale ROBERTO MUCCI, che ha concluso per il rigetto del ricorso; uditi gli avvocati NA.CI. e CE.RI..
L’impresa familiare e il dubbio di costituzionalità nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio
RILEVATO CHE
1. La Corte d’appello di Ancona confermava la decisione del Tribunale di Fermo, che aveva respinto la domanda proposta dalla sig.ra Ub.Ir. nei confronti dei figli-eredi del sig. Er.Du., volta ad accertare l’esistenza dell’impresa familiare relativa all’azienda agricola “(…) di Du.Er.” nel periodo dal 2004 al 28.11.2012, data del decesso del sig. Er.Du., nonché ad ottenere condanna dei coeredi del Du. alla liquidazione della quota a lei spettante quale partecipe all’impresa.
La ricorrente aveva dedotto di aver convissuto con il sig. Du. – già sposato con altra donna – sin dall’anno 2000 dopo aver intrapreso con lui, nel 1988, una relazione sentimentale.
La convivenza stabile, iniziata in località Verdello, era poi proseguita a Montefiore dell’Aso ove la coppia si era trasferita nel 2008, avendo il Du. acquistato un fondo rustico al quale erano via via susseguite altre acquisizioni e la costruzione di una cantina per la produzione del vino oltre che avviata un’attività di ricezione turistica.
La Ub.Ir. aveva, quindi, dedotto di aver prestato attività lavorativa in modo continuo nell’azienda del Du. denominata “(…) di Du.Er.”, e ciò dal 2004 (anno di iscrizione del registro delle imprese) fino al 2012 (anno di decesso del Du.).
Il Tribunale aveva respinto la domanda rilevando che il riconoscimento della quota di partecipazione all’impresa familiare ex art. 230 bis cod. civ. presuppone la sussistenza di un rapporto di coniugio o di parentela o affinità a termini dell’art. 230 bis cod. civ. e ritenendo non applicabile detta disciplina alla convivenza.
Egualmente la Corte territoriale, per quanto qui rileva, riteneva che l’art. 230 bis cod. civ. non trovasse applicazione nei confronti del “convivente di fatto”, non potendo quest’ultimo essere considerato “familiare” ai sensi del comma 3 dell’art. 230 bis cod. civ.
Evidenziava che, in ogni caso, emergevano plurime circostanze ostative alla ipotizzata partecipazione all’impresa familiare: – l’essere il sig. Er.Du. rimasto fino alla morte formalmente legato in matrimonio con Ma.Gr.; – l’essere stato stipulato, sia pure per un periodo più limitato rispetto a quello dedotto dalla ricorrente (dal 2004 al 2012), un contratto di lavoro subordinato tra la sig. Ub.Ir. e l’azienda, condizione escludente l’applicazione dell’art. 230 bis cod. civ., che espressamente prevede una residualità della disciplina dell’impresa familiare (comma 1: “Salvo che non sia configurabile un diverso rapporto (…)”); – l’essere risultata la sig.ra Ub.Ir. regolarmente assunta presso la Regione Lombardia.
Aggiungeva che non poteva trovare applicazione l’art. 230 ter cod. civ., essendo il rapporto di convivenza cessato nel 2012, ossia prima dell’entrata in vigore della legge n. 76/2016 che ha esteso ai conviventi la disciplina dell’impresa familiare.
3. Avverso tale sentenza Ir.Ub.Ir. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
4. Du.Cr., hanno resistito con controricorso.
5. Il Collegio della Sezione Lavoro di questa Corte ha, quindi, emesso l’ordinanza interlocutoria n. 2121/2023, depositata in data 24 gennaio 2023, con cui ha disposto la trasmissione del ricorso al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
L’ordinanza, dopo aver richiamato l’orientamento di legittimità secondo il quale presupposto per l’applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare è l’esistenza di una famiglia legittima con la conseguenza che l’art. 230 bis cod. civ. non è applicabile nel caso di mera convivenza, ovvero alla famiglia cosiddetta “di fatto”, trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica (così Cass., 29 novembre 2004, n. 22405), ha ritenuto che lo stesso fosse meritevole di una revisione alla luce sia degli interventi legislativi e/o per via giurisprudenziale realizzanti una “apertura” nei confronti della convivenza more uxorio.
Ha così richiamato la recente introduzione dell’art. 230 ter cod. civ., ad opera dell’art. 1, comma 46, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (c.d. legge Cirinnà), che ha previsto per il convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, salvo che tra i conviventi non esista un rapporto di società o di lavoro subordinato.
Ha, inoltre, richiamato le pronunce della Corte costituzionale che hanno attribuito rilevanza alla convivenza more uxorio nelle ipotesi in cui venga in considerazione la lesione di diritti fondamentali come il diritto sociale all’abitazione (sentenza n. 559 del 1986 e n. 404 del 1988) ovvero il diritto alla salute (sentenza n. 213 del 2016) nonché quelle che, nel settore penale, hanno affermato che può beneficiare della scriminante di cui all’art. 384, comma 1, cod. pen. anche il convivente more uxorio (sentenze n. 416 e n. 8 del 1996; ordinanza n. 121 del 2004; sentenza n. 140 del 2009).
Considerata, poi, l’impossibilità di applicare retroattivamente la disciplina del 2016 e dato atto dell’evoluzione che si è avuta nella società con sempre maggiore diffusione della convivenza more uxorio (di cui hanno tenuto conto sia il legislatore con la riforma del 2016 sia la Corte costituzionale) ha sottolineato che una esclusione del convivente che per lungo tempo abbia lavorato nell’impresa familiare dalla tutela di cui all’art. 230 bis cod. civ. si porrebbe in contrasto non solo con gli artt. 2 e 3 Cost. ma soprattutto con la giurisprudenza della Corte EDU e con il diritto UE.
Ha richiamato Cass. Pen., Sez. Un., 17 marzo 2021, n. 10381 che, in difformità rispetto ai precedenti di legittimità nel senso della insuscettibilità di una interpretazione estensiva o analogica, ha affermato che l’art. 384, comma primo, cod. pen., in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi abbia commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente “more uxorio” da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.
Ha evidenziato che in detta pronuncia il Giudice di legittimità ha precisato come la vita dei conviventi di fatto rientri nella concezione di “vita familiare” ormai da tempo elaborata dalla Corte EDU in sede di interpretazione dell’art. 8, par. 1, CEDU.
Ha sottolineato che la Corte EDU, pur avendo ricondotto la tutela dei vincoli affettivi discendenti dalla convivenza di fatto, ha tuttavia considerato legittima la limitazione di tale diritto (ad esempio, in ragione dell’esigenza di tutelare gli interessi connessi all’amministrazione della giustizia penale) riconoscendo altresì la possibilità di bilanciamenti differenziati per le coppie sposate e le convivenze di mero fatto, secondo la discrezionale valutazione del legislatore.
Ha ritenuto perciò indispensabile un intervento nomofilattico al fine di chiarire “se l’art. 230 bis, comma terzo, cod. civ. possa essere evolutivamente interpretato (in considerazione del mutamento dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso) in chiave di esegesi orientata sia agli artt. 2, 3, 4 e 35 Cost. sia all’art. 8 CEDU come inteso dalla Corte di Strasburgo, nel senso di prevedere l’applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da un grado accertato di stabilità”, questione “di massima di particolare importanza”, da sottoporre alle Sezioni Unite.
6. Il Primo Presidente, in ragione della particolare importanza della questione di massima, ha assegnato la controversia a queste Sezioni unite.
7. Le parti hanno depositato memorie.
L’impresa familiare e il dubbio di costituzionalità nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio
CONSIDERATO CHE
SINTESI DEL RICORSO
1. Con il primo motivo la ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ.
Sostiene che il rapporto di lavoro con la Regione Lombardia (iniziato nel 1989 e proseguito con contratto di lavoro al 100% fino al 31.12.2020, e poi, a partire dal 01.01.2012, con contratto part-time verticale al 50%) non abbia influito sulla sua partecipazione all’azienda, profusa sia nell’intrattenimento di rapporti esterni con i vari enti (Comune, Provincia, Regione, Asur ecc.), clienti, fornitori, professionisti e nell’organizzazione di eventi promozionali e nella creazione e sviluppo dell’azienda sotto il profilo della costituzione della rete commerciale, sia nella diretta attività nei campi (nei periodi di raccolta delle uve e delle olive) insieme con i braccianti che in precedenza aveva assunto e selezionato.
Assume, inoltre, che il rapporto di lavoro subordinato intrapreso per brevi periodi con l’azienda agricola del Du. sia stato simulato ai soli fini assicurativi e, pertanto, lo stesso dovrebbe essere letto nella prospettiva delle condizioni familiari in cui si è svolto.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 230 bis cod. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.
Deduce che la Corte territoriale ha statuito erroneamente laddove non ha considerato le mutate sensibilità sociali in materia di convivenza, oltre che le aperture della giurisprudenza di legittimità e della giurisprudenza costituzionale verso il convivente more uxorio; in tal senso, secondo la ricorrente, la disciplina dell’impresa familiare dovrebbe trovare applicazione anche in mancanza di una norma rivolta espressamente al convivente, in base ad una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 230 bis cod. civ.
3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 230 bis e 230 ter cod. civ. e dell’art. 11 delle Preleggi.
Sostiene che, in ambito civile, il principio di irretroattività non è presidiato da una norma costituzionale e, pertanto, può essere derogato purché ciò risponda a criterio di ragionevolezza e di maggior giustizia.
4. La Corte ritiene, per le ragioni che di seguito si andranno ad esporre, che sia rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 230 bis cod. civ. (per violazione dei sopra ricordati artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., nonché l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., ed ancora 8 e 12 CEDU), nella parte in cui non prevede che si intenda come familiare anche il convivente more uxorio, premessa logico-funzionale cui accede l’estensione, in via derivata, dell’illegittimità costituzionale anche dell’art. 230 ter cod. civ. che applica al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera dell’impresa dell’altro convivente una tutela inferiore rispetto a quella prevista per il familiare.
SULLA RILEVANZA
5. Come si evince dal primo motivo di ricorso sopra sintetizzato, sul presupposto della inapplicabilità ratione temporis al caso di specie dell’art. 230 ter cod. civ. e della impossibilità di un’applicazione estensiva dell’art. 230 bis cod. civ. (nel senso di estendere al convivente di fatto la medesima tutela prevista per il familiare), è stato del tutto pretermesso (verosimilmente proprio in ragione del condizionamento derivante dalla ratio decidendi costituita dall’impossibilità di qualificare la Ub.Ir. come familiare ai sensi dell’art. 230 bis cod. civ.) ogni accertamento in concreto circa l’effettività e la continuatività dell’apporto lavorativo della predetta nell’impresa familiare, apporto che si assume determinativo dell’accrescimento della produttività dell’impresa.
La rilevanza della questione di legittimità costituzionale non è esclusa dagli ulteriori elementi indicati dalla Corte territoriale (a) l’esistenza di un formale rapporto di coniugio del titolare dell’impresa; b) l’aver avuto, la ricorrente, un rapporto di lavoro subordinato, ancorché per un periodo limitato; c) l’avere in corso, la ricorrente, un rapporto di lavoro con la Regione Lombardia), dovendosi ricordare che l’art. 230 bis al comma 3 qualifica la partecipazione del convivente familiare quale “collaborazione” all’attività economica. Non è dunque richiesto alcun “esercizio congiuntivo” e non è richiesta l’esclusività (il che rende compatibile, in linea teorica, tale collaborazione con altra attività di lavoro dipendente eventualmente in essere). Non occorre la necessaria osservanza di orari predeterminati, al fine di contribuire all’accrescimento della produttività dell’impresa in ragione del lavoro apportato; neppure l’attività lavorativa deve essere prevalente rispetto ad altre attività, essendo compatibile con lavori ulteriori. È stato chiarito dalla giurisprudenza di legittimità che la continuità dell’apporto richiesto dall’art. 230 bis cod. civ. per la configurabilità della partecipazione all’impresa familiare non esige la continuità della presenza in azienda, richiedendo invece soltanto la continuità dell’apporto (Cass. n. 13849/2002), così che detta continuità appare, in linea di principio, del tutto compatibile con altre occupazioni professionali e non, purché in concreto le modalità di svolgimento delle varie attività concorrenti risultino tra loro conciliabili, di tal che la contemporanea dedizione ad interessi di natura diversa non incide in maniera aprioristica nemmeno sulla misura dell’apporto qualitativo e quantitativo del singolo partecipante all’impresa familiare.
L’argomento fondante la decisione della Corte territoriale è quello, sopra evidenziato, del limite costituito dall’impossibilità di applicare tanto l’art. 230 bis cod. civ. quanto l’art. 230 ter cod. civ. ed è su questo che si incentrano i sospetti di incostituzionalità che si andranno ad esporre.
La rilevanza, del resto, deve essere valutata in relazione al nesso di pregiudizialità tra la decisione sul dubbio di costituzionalità e l’applicazione della norma di cui si dubita.
Tale nesso, nello specifico, sicuramente sussiste.
La decisione sul ricorso di Ub.Ir. dipende, dunque, dal suddetto limite relativo all’art. 230 bis cod. civ. (pacifico essendo che non possa applicarsi ratione temporis l’art. 230 ter cod. civ.), di qui la rilevanza del dubbio di illegittimità costituzionale, in quanto se la disposizione sospettata venisse dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio si determinerebbe, con valutazione prima facie di fondatezza del primo motivo di ricorso, la necessità di quell’accertamento in punto di fatto (pretermesso dal giudice di merito) circa l’effettività e la continuatività dell’apporto lavorativo della predetta nell’impresa familiare, apporto che, come detto, si assume determinativo dell’accrescimento della produttività dell’impresa.
L’impresa familiare e il dubbio di costituzionalità nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio
SULLA NON MANIFESTA INFONDATEZZA
6. L’art. 230 bis cod. civ. – Impresa familiare – così testualmente prevede:
“Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato. Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano alla impresa stessa. I familiari partecipanti all’impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi.
Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo.
Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo.
Il diritto di partecipazione di cui al primo comma è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a favore di familiari indicati nel comma precedente col consenso di tutti i partecipi. Esso può essere liquidato in danaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione del lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell’azienda. Il pagamento può avvenire in più annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice.
In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda i partecipi di cui al primo comma hanno diritto di prelazione sull’azienda. Si applica, nei limiti in cui è compatibile, la disposizione dell’art. 732.
Le comunioni tacite familiari nell’esercizio dell’agricoltura sono regolate dagli usi che non contrastino con le precedenti norme”.
La disposizione è stata introdotta nel nostro ordinamento con l’art. 89 della fondamentale legge di riforma del 19 maggio 1975, n. 151, al termine di una lunga evoluzione dottrinale e giurisprudenziale della comunione tacita familiare, disciplinata per il settore agricolo dall’art. 2140 cod. civ. previgente, al fine di conferire una tutela minima a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono nell’ambito di aggregati familiari e che non possono contare su più specifiche discipline di protezione (vuoi in ambito lavorativo, vuoi in quello societario).
La norma codicistica, il cui fondamento viene non solo ricondotto all’art. 29 Cost., ma ancor prima agli artt. 35 e 36 Cost., ha inteso superare quella presunzione di gratuità che in precedenza spesso veniva richiamata per qualificare le prestazioni in ambito familiare, vuoi in ragione di una generica “causa affectionis vel benevolentiae”, vuoi in ragione di un contratto atipico di lavoro gratuito, così da ritenere che le stesse non fossero in grado di generare pretese ed obblighi giuridicamente vincolanti, azionabili nei confronti del familiare imprenditore, beneficiario delle prestazioni medesime.
7. Nell’interpretazione giurisprudenziale di legittimità, l’impresa familiare mira a disciplinare situazioni di apporto lavorativo all’impresa del congiunto che, pur connotate dalla continuità, non siano riconducibili all’archetipo della subordinazione e a confinare in un’area limitata il lavoro gratuito (Cass. 15 giugno 2020, n. 11533). In plurime pronunce si sono posti in rilievo aspetti dell’impresa familiare rilevanti sotto il profilo ricostruttivo della fattispecie: quali, la natura individuale dell’impresa familiare (Cass. 18 gennaio 2005, n. 874; Cass. 15 aprile 2004, n. 7223; Cass. 6 marzo 1999, n. 1917) ed il regime fiscale dei redditi dei familiari collaboratori (definito di lavoro, e non assimilabile quindi ad un reddito di impresa: Cass. 2 dicembre 2008, n. 28558; Cass. 20 dicembre 2019, n. 34222).
Innanzitutto, l’incipit della norma prefigura l’istituto dell’impresa familiare come autonomo, di carattere speciale (ma non eccezionale) e di natura residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile. Sul carattere residuale dell’art. 230 bis cod. civ. si è espressa, recentemente, anche Cass. 15 giugno 2020 n. 11533: “L’impresa familiare ha carattere residuale, come emerge anche dalla clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 230 bis cod. civ., sicché mira a disciplinare situazioni di apporto lavorativo all’impresa del congiunto che, pur connotate dalla continuità, non siano riconducibili all’archetipo della subordinazione e a confinare in un’area limitata il lavoro gratuito”.
Una parte della dottrina (oggi minoritaria) ha ricostruito la fattispecie in forma di impresa collettiva o associativa, con riconoscimento di taluni diritti partecipativi in capo al familiare dell’imprenditore; sempre secondo questa visione, all’impresa familiare sarebbero applicabili in via analogica talune disposizioni societarie.
In senso contrario si è replicato che nell’istituto è assente qualunque affectio societatis, mancando i conferimenti e una base statutaria o contrattuale.
8. Il legislatore ha voluto assicurare diritti e tutele ai familiari che collaborano nell’impresa di famiglia in mancanza di altra forma giuridica di protezione (si veda Cass., Sez. Un., sent. n. 23676 del 6 novembre 2014, con la quale si è affermato che l’esercizio dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria “attesa non solo l’assenza nell’art. 230 bis cod. civ. di ogni previsione in tal senso, ma, soprattutto, l’irriducibilità ad una qualsiasi tipologia societaria della specifica regolamentazione patrimoniale ivi prevista in ordine alla partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, che sono determinati in proporzione alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato e non alla quota di partecipazione”).
Si tratta di diritti importanti che sono sia di tipo partecipativo sia di tipo economico-patrimoniale. La natura di questi ultimi è quella dei diritti di credito e in relazione ai quali il soggetto obbligato deve essere individuato nel familiare imprenditore. Fra questi viene in considerazione, in primo luogo, il diritto al mantenimento, che ha per oggetto la somministrazione dei beni necessari a soddisfare le normali esigenze di vita dell’avente diritto, da intendersi non quali mezzi strettamente indispensabili o idonei ad assicurare i bisogni primari, “alimentari”, bensì di mezzi in grado di assicurare al familiare una esistenza libera e dignitosa. Trattasi di diritto che prescinde dal buon andamento dell’azienda, che ove si verifichi potrà altresì determinare il diritto ad una quota degli utili e degli incrementi dell’azienda.
In secondo luogo, la norma prevede che le decisioni di cui al comma primo dell’art. 230 bis cod. civ. (riguardanti cioè l’impiego degli utili e degli incrementi, il compimento di atti di gestione straordinari, indirizzi produttivi e cessazione dell’impresa) sono adottate a maggioranza dai familiari che partecipano all’impresa; la norma si riferisce, senza operare distinzioni, sia ai familiari che prestano la loro attività nell’impresa sia a quelli che collaborano nella famiglia e la maggioranza si computa “per teste” e non per quote: in altri termini ogni familiare dispone di un voto, senza che al riguardo assuma rilievo la quantità e qualità del lavoro prestato. Invero, il diritto di partecipazione del familiare è espressamente definito dal comma 4 come “intrasferibile” – se non ad un altro familiare e con il consenso unanime di tutti i partecipanti all’impresa economica – nascendo la norma per assicurare il carattere strettamente personale e rigidamente familiare dell’impresa adiuvata dalla collaborazione collettiva dei familiari, così da evitare l’ingresso di terzi estranei.
9. Secondo l’opinione prevalente, i presupposti per l’applicazione della disciplina di cui all’art. 230 bis cod. civ. sono costituiti da: a) l’esistenza di una impresa individuale (art. 2082 cod. civ.); b) la prestazione lavorativa svolta nell’interesse dell’impresa medesima dal familiare, con carattere di continuità, ossia con costanza e regolarità, escludendosi tuttavia che la stessa debba essere necessariamente esclusiva; c) in alternativa, la prestazione di lavoro nella famiglia ma senza che possa assumere rilevanza la mera attività domestica, essendo necessario che vi sia un collegamento causale e funzionale con l’attività di impresa.
10. Questione controversa attiene all’individuazione dell’ambito soggettivo della norma; la disposizione individua i soggetti tutelati, delimitando la cerchia dei familiari in relazione alla famiglia fondata sul matrimonio. Ed infatti l’istituto dell’impresa familiare, di cui all’art. 230 bis, è previsto esclusivamente in favore del coniuge.
11. Innanzitutto, al fine di ritenere che nell’ambito della cerchia dei familiari debba essere ricompreso anche il convivente more uxorio, occorre chiedersi, da un punto di vista metodologico, se, nel caso, debba discutersi di ‘analogia’ o di ‘interpretazione estensiva’.
Come è noto, l’interpretazione estensiva non amplia il contenuto effettivo della norma, ma impedisce che fattispecie ad essa soggette si sottraggano alla sua disciplina per un ingiustificato rispetto della lettera.
Con l’analogia si applica la conseguenza giuridica prevista da una norma ad una fattispecie concreta riconducibile a casi diversi, ma simili in maniera rilevante alle circostanze contemplate dalla norma. Il criterio per mezzo del quale si stabilisce la rilevanza della somiglianza è generalmente indicato nella ratio legis.
Nel nostro caso si tratterebbe di affermare, attraverso una interpretazione estensiva, che è ricompresa nella disciplina di cui all’art. 230 bis cod. civ. e nella nozione di familiare anche la convivenza more uxorio.
Sulla possibilità di applicare estensivamente l’art. 230 bis cod. civ. anche al convivente more uxorio, la dottrina si è a lungo interrogata sia ante riforma del 2016 sia post riforma del 2016.
Prima della l. n. 76/2016, la rilevanza del fenomeno della convivenza stabile aveva indotto una parte della dottrina a prospettare la possibilità di applicare in via analogica (melius in via di interpretazione estensiva) la tutela offerta dall’art. 230 bis.
Tuttavia, un nutrito ventaglio di pronunciamenti giurisprudenziali aveva affermato l’inestensibilità della disciplina legislativa al convivente, sulla base del rilievo che elemento saliente dell’impresa familiare e della sua disciplina non è l’apporto lavorativo, che è ravvisabile in qualunque rapporto di lavoro, né i legami affettivi, ma la famiglia in senso chiaro e tipico individuata nei più stretti congiunti.
Già Cass. 2 maggio 1994, n. 4204 aveva evidenziato che: “L’art. 230 bis cod. civ., che disciplina l’impresa familiare, costituisce norma eccezionale, in quanto si pone come eccezione rispetto alle norme generali in tema di prestazioni lavorative ed è pertanto insuscettibile di interpretazione analogica. Deve peraltro ritenersi manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 230 bis nella parte in cui esclude dall’ambito dei soggetti tutelati il convivente more uxorio, posto che elemento saliente dell’impresa familiare è la famiglia legittima, individuata nei più stretti congiunti, e che un’equiparazione fra coniuge e convivente si pone in contrasto con la circostanza che il matrimonio determina a carico dei coniugi conseguenze perenni ed ineludibili (quale il dovere di mantenimento o di alimenti al coniuge, che persiste anche dopo il divorzio), mentre la convivenza è una situazione di fatto caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale ad nutum”.
Il concetto era stato ribadito da Cass. 29 novembre 2004, n. 22405 secondo cui “presupposto per l’applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare è l’esistenza di una famiglia legittima e, pertanto, l’art. 230 bis cod. civ. non è applicabile nel caso di mera convivenza, ovvero alla famiglia cosiddetta ‘di fatto’, trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica”.
In realtà una certa inversione di tendenza si è avuta con Cass. 15 marzo 2006, n. 5632 che, al punto 2.1, ha così affermato: “In diritto va ribadito quanto già affermato da questa Corte (Cass. 19 dicembre 1994, n. 10927) secondo cui un’attività lavorativa che si svolga nell’ambito della convivenza more uxorio non è di norma riconducibile ad un rapporto di subordinazione onerosa (cfr. anche Cass. 4 gennaio 1995, n. 70, che parla ancora di presunzione di gratuità), mentre è semmai possibile inquadrare il rapporto stesso nell’ipotesi della comunione tacita familiare come delineata dall’art. 230 bis c.c.; principio che può estendersi anche alla vera e propria impresa familiare atteso che la famiglia di fatto costituisce una formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale ex art. 2 Cost. (cfr. Corte cost. 18 novembre 1986 n. 237). Questa Corte (Cass. 18 ottobre 2005 n. 20157) ha più recentemente affermato che il carattere residuale dell’impresa familiare, quale risultante dall’incipit della disposizione che l’ha introdotta in occasione della riforma del diritto di famiglia (“Salvo che non sia configurabile un diverso rapporto …”), mira proprio a coprire tutte quelle situazioni di apporto lavorativo all’impresa del congiunto, parente entro il terzo grado o affine entro il secondo grado, che non rientrino nell’archetipo del rapporto di lavoro subordinato o per le quali non sia raggiunta la prova dei connotati tipici della subordinazione, con l’effetto di confinare in un’area ben più limitata quella del lavoro familiare gratuito. Sicché, ove un’attività lavorativa sia stata svolta nell’ambito dell’impresa ed un corrispettivo sia stato erogato dal titolare, occorrerà distinguere la fattispecie del lavoro subordinato e quella della compartecipazione all’impresa familiare, senza che possa più avere ingresso alcuna causa gratuita della prestazione lavorativa per ragioni di solidarietà familiare. Principio questo che può essere esteso anche alla famiglia di fatto consistente in una convivenza more uxorio ove la prestazione lavorativa sia resa nel contesto di un’impresa familiare. Ma al di fuori di questa ipotesi la prestazione lavorativa resa nell’ambito di una convivenza more uxorio rimane tuttora riconducibile ai vincoli di fatto di solidarietà ed affettività che di norma sono alternativi ai vincoli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive qual è il rapporto di lavoro subordinato, anche se in principio non può escludersi del tutto la configurabilità di quest’ultimo, così come è ipotizzatale l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra coniugi (Cass. 9 agosto 1996, n. 7378)”. In tale decisione, dunque, pur pervenendo, i Giudici di legittimità, ad una soluzione in linea con l’orientamento dominante in punto di presunzione di gratuità della prestazione del convivente di fatto che può essere vinta dalla prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, tuttavia si è evidenziata, ancorché in via incidentale, la possibilità di un rapporto di impresa familiare anche nell’ambito della famiglia di fatto.
12. È quindi intervenuta la legge 20 maggio 2016, n. 76 (“Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”), che si è posta l’obiettivo di riconoscere la convivenza di fatto tra due persone, sia eterosessuali che omosessuali, che non sono sposate e che potranno eventualmente stipulare un contratto di convivenza per regolare le loro questioni patrimoniali. L’art. 1, comma 36, di tale legge dispone che: “si intendono per “conviventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”. Tale disposizione rivela come la legge n. 76 non si occupi di regolamentare tutte le ipotesi comunemente ritenute in ambito sociale di “famiglia di fatto” o di “convivenza more uxorio”, in quanto, richiedendo la presenza di dati presupposti, finisce per limitare il suo ambito applicativo.
13. In tale contesto, per quanto qui rileva, è stato introdotto l’art. 230 ter cod. civ. (“Diritti del convivente”) aggiunto dall’art. 1, comma 46, della suddetta l. n. 76/2016 secondo il quale:
“Il convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”.
Inoltre, in virtù dell’art. 1, comma 20, l. n. 76/2016, l’art. 230 bis cod. civ. è applicabile anche all’unione civile (“20. Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”).
La scelta del legislatore è stata, dunque, duplice: a) si è valutato di applicare le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso, così che, di conseguenza, tali persone rientrano, ora, nel novero dei familiari come delineato dall’art. 230 bis comma 3 con l’applicazione delle medesime tutele (art, 1, comma 20, l. n. 76/2016); b) si è delineata una disciplina diversa rispetto a quella del familiare e, come più avanti si vedrà, caratterizzata da una minor tutela – per il convivente stabile (art. 230 ter).
14. Tanto premesso, è evidentemente preliminare la questione dell’interpretazione retroattiva dell’art. 230 ter cod. civ.
Si era posta analoga questione con riguardo all’art. 230 bis cod. civ., risolta dalla giurisprudenza in senso negativo.
Così, si erano espresse nel senso dell’esclusione di una efficacia retroattiva dell’art. 230 bis cod. civ., in mancanza di espressa previsione, Cass. 6 aprile 1990, n. 2909; Cass. 21 ottobre 1992, n. 11500 ed ancora la più recente Cass. 2 aprile 2013, n. 7981.
Egualmente deve escludersi l’efficacia retroattiva dell’art. 230 ter cod. civ. che non può essere applicato alla specie per il principio d’irretroattività enunciato dall’art. 11 disp. prelim. al codice civile, essendo, le situazioni giuridiche fatte valere in causa, ormai definitivamente compiute sotto il regime anteriore alla riforma del 2016 (il Du. è deceduto nel 2012).
15. Potrebbe, invero, ritenersi che l’art. 230 ter cod. civ. sia una norma non costitutiva di nuovi diritti precedentemente sconosciuti all’ordinamento ma ricognitiva di principi già acquisiti al panorama giuridico vigente. Si potrebbe sostenere che il legislatore del 2016 si è solo limitato a riconoscere un’esigenza di tutela già presente all’interno del tessuto sociale del nostro Paese ben prima del 2016 ed a formalizzarla mediante l’introduzione di un’apposita disciplina (tutela minimale), senza creare una nuova posizione giuridica prima non oggetto di tutela. A sostegno si potrebbe richiamare la sentenza della Corte EDU del 21 luglio 2015 – Ricorsi nn. 18766/11 e 36030/11 – Oliari e altri vs Italia, par. 173: “In relazione ai principi generali menzionati nel paragrafo 161 supra, la Corte osserva che dall’esame di cui sopra del contesto interno emerge l’esistenza di un conflitto tra la realtà sociale dei ricorrenti che prevalentemente vivono in Italia la loro relazione apertamente, e la legislazione che non fornisce loro alcun riconoscimento ufficiale sul territorio. Secondo la Corte l’obbligo di prevedere il riconoscimento e la tutela delle unioni omosessuali, consentendo in tal modo alla legge di rispecchiare le realtà delle situazioni dei ricorrenti, non comporterebbe alcun particolare onere per lo Stato italiano di tipo legislativo, amministrativo o di altro tipo. Inoltre, tale legislazione risponderebbe a un’importante esigenza sociale, come ha osservato l’ARCD, le statistiche nazionali ufficiali indicano che, soltanto nell’Italia centrale, vi è circa un milione di omosessuali (o di bisessuali)”. Così il legislatore potrebbe aver previsto una norma ricognitiva, più che dispositiva, di principi desunti dall’intero sistema ordinamentale che, in questo senso, non costituirebbero una nuova disciplina, ma delimiterebbero i contorni di una precedente, applicabile analogicamente nei suoi profili essenziali.
In quest’ottica, l’art. 230 ter cod. civ. andrebbe a dettare non tanto la nuova disciplina per il convivente che lavora nell’impresa dell’altro convivente, quanto la cornice edittale entro la quale adattare la disciplina del 230 bis cod. civ. al familiare di fatto. In altra vicenda, in materia di assegno divorzile, il Giudice di legittimità (Cass. 4 maggio 2022, n. 14151) ha così affermato: “il comma 36 dell’articolo 1 (della legge 20 maggio 2016, n. 76, n.d.r.) – com’è ovvio non direttamente applicabile alla controversia in esame, ma che desta nondimeno interesse anche con riguardo ad essa, perché evidentemente volto non ad introdurre una innovativa definizione di convivenza, bensì a fotografare l’atteggiarsi della nozione giuridica nel costume sociale – definisce conviventi di fatto “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”, ponendo così l’accento sull’esistenza di un legame affettivo stabile, volto alla reciproca assistenza morale e materiale, che pare essere l’unico requisito essenziale perché si possa configurare una convivenza di fatto. Sembra dunque che il legislatore abbia in tal modo inteso mantener fermo il tratto di atipicità e polimorfia che connota la convivenza more uxorio, la quale conserva il carattere del fatto giuridico in cui si evidenzino la presenza di stabili legami affettivi di coppia e l’assunzione spontanea di reciproci obblighi di assistenza morale e materiale, omettendo deliberatamente di avventurarsi in un tentativo di ricondurre la nozione ad elementi individuatori oggettivizzati, ivi compresa la coabitazione, troppo puntuali”.
Con i suddetti criteri si potrebbe affermare che la nuova disposizione, in definitiva, individua il minimo di tutela cui il legislatore è obbligato.
Tale opzione ermeneutica, che consentirebbe di ricavare dalla disposizione del 2016 uno ‘statuto protettivo’ (limitato) da riconoscere anche al convivente ex art. 230 bis cod. civ., di certo porrebbe tale norma al riparo da profili di incostituzionalità ma si risolverebbe, di fatto, nell’attribuzione all’art. 230 ter cod. civ. di una portata retroattiva in violazione della regola ordinaria di cui all’art. 11 delle preleggi secondo la quale la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo.
Ciò non consente, ad avviso del Collegio, di prescindere dalla necessità (qui avvertita) di una diretta valutazione del Giudice delle leggi.
Ed infatti non si tratta, come nel caso dell’assegno divorzile, di estendere al convivente di fatto la stessa tutela delle persone legate da matrimonio, ma di individuare ex post una tutela minima, differenziata (v. infra), riconoscibile a tale convivente di fatto.
14. La questione che si pone è, dunque, tutta incentrata sull’art. 230 bis cod. civ. anche se l’introduzione dell’art. 230 ter cod. civ. rileva sotto due aspetti: certamente la norma introdotta nel 2016 è significativa di una estensione delle tutele in favore del convivente di fatto con ciò superando il dibattito esistente in giurisprudenza e in dottrina circa l’applicabilità dell’impresa familiare anche al convivente; i due articolati – art. 230 bis e art. 230 ter -, quanto alle tutele previste rispettivamente per il familiare e il convivente di fatto, non sono perfettamente coincidenti.
Il legislatore della riforma c.d. Cirinnà ha, infatti, attribuito al convivente una serie di diritti che però è inferiore a quella riconosciuta al coniuge (e, per effetto dell’art. 1, comma 20, l. n. 76/2016 anche alle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso); per il convivente, ad esempio, non è reiterata la disposizione di cui al secondo periodo dell’art. 230 bis, comma 1: “le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa”. Quindi la nuova norma, a differenza dell’art. 230 bis, non menziona il diritto del partecipante al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia.
Ed allora, nell’ipotesi di applicazione estensiva dell’art. 230 bis cod. civ., al convivente si verrebbe a determinare una situazione nella quale per il periodo fino al 2016 si riconosce di più di quello che il legislatore ha poi previsto come tutela minima. Si determinerebbe una disarmonia tra le due disposizioni.
16. La scelta legislativa del 2016 è evidentemente, a monte, preclusiva della possibilità di una interpretazione estensiva dell’art. 230 bis cod. civ. (cui pure farebbero propendere le convergenti posizioni giurisprudenziali anche delle Corti europee – v. più avanti – e tale da ricomprendere nel novero dei familiari anche il convivente) che dovrebbe essere ‘secca’ e non potrebbe essere ‘creativa’ nel senso di una estensione nei limiti della tutela minima prevista dal nuovo art. 230 ter cod. civ. (anche su questo v. più avanti).
È del tutto evidente che la “causa” dell’intervento legislativo del 2016 sia stata quella di colmare un vulnus di tutela proprio dell’ordinamento italiano, consistente nella necessità di salvaguardare il lavoro prestato dal convivente more uxorio all’interno dell’impresa familiare gestita dall’altro convivente. È bene ricordare che tale necessità, lungi dal rappresentare il mero frutto di una volontà creatrice del legislatore, incarna l’esigenza, preesistente nella realtà sociale rispetto a quella normativa, del formale riconoscimento del “fatto” della convivenza come una posizione giuridica meritevole di tutela in quanto tale.
In aggiunta a ciò, bisogna tenere altrettanto presente che tale riconoscimento, nella sua componente essenziale, non è sottoposto ad una mera scelta discrezionale del legislatore, ma costituisce un vero e proprio obbligo di tutela imposto dalla lettura sistematica delle norme costituzionali (artt. 2, 3, 4, 35 e 36), europee (art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) e convenzionali (art. 8 CEDU). Ciò in quanto, l’ipotesi in esame porta le vesti di un diritto fondamentale, oggetto dell’obbligo di tutela, individuato dalla giurisprudenza europea nella garanzia del rispetto della vita privata e familiare.
Appurata, dunque, l’esistenza di un nucleo essenziale di tutela cui l’ordinamento è tenuto, costituito dal riconoscimento della rilevanza giuridica della famiglia di fatto, il legislatore nazionale rimane libero, nei limiti della ragionevolezza e dell’effettività, nella scelta della misura dell’intervento. In altre parole, se è vero che incombe su di esso un obbligo di tutela, è altrettanto vero che non è identificabile un obbligo, per così dire, di eguale tutela tra la disciplina prevista per il matrimonio e le unioni civili e la convivenza, residuando un margine di discrezionalità per il legislatore, in considerazione del peculiare sentire sociale della collettività nazionale (in questo senso anche la già citata Corte EDU, Oliari e altri vs Italia, par. 177:
“Per quanto riguarda l’ampiezza del margine di discrezionalità, la Corte osserva che esso dipende da vari fattori. Benché la Corte possa accettare che l’oggetto della presente causa possa essere connesso a delicate questioni morali o etiche che permettono un maggiore margine di discrezionalità in assenza di accordo tra gli Stati membri, essa osserva che il caso di specie non riguarda alcuni specifici diritti “supplementari” (in contrapposizione ai diritti fondamentali) che possono o non possono sorgere da tale unione e che possono essere oggetto di una feroce controversia alla luce della loro dimensione sensibile. A tale proposito la Corte ha già ritenuto che gli Stati godano di un certo margine di discrezionalità per quanto riguarda l’esatto status conferito da mezzi di riconoscimento alternativi e i diritti e gli obblighi conferiti da tale unione o da un’unione registrata (si veda Schalk e Kopf, sopra citata, par 108-09). In realtà il caso di specie concerne unicamente l’esigenza generale di riconoscimento giuridico e la tutela fondamentale dei ricorrenti in quanto coppie omosessuali. La Corte considera questi ultimi aspetti dell’esistenza e dell’identità dell’individuo cui si dovrebbe applicare il margine pertinente”).
Le suddette considerazioni portano ad affermare che con l’introduzione dell’art. 230 ter cod. civ. il legislatore abbia voluto non solo adempiere all’obbligo di tutela sopra descritto – obbligo che, non sembri pleonastica la ripetizione, trova il suo fondamento nella preesistente realtà sociale, come rilevato dalla stessa Corte EDU – ma anche dettarne i limiti e i confini, individuando il minimo essenziale di tutela da riconoscere alle famiglie di fatto, in contrapposizione alle più ampie garanzie proprie delle famiglie “di diritto” o famiglie “formali”. Ciò, dunque, con una tecnica legislativa “per sottrazione”, nel senso della previsione di una disciplina specifica più ristretta e leggera, meno garantistica, quindi, per la posizione del convivente lavoratore rispetto a quella del familiare-lavoratore di cui all’art. 230 bis cod. civ.
17. Venendo alla questione di una estensione dell’art. 230 bis cod. civ. al convivente more uxorio in termini generali (e prescindendo per un momento dall’art. 230 ter) va ricordato che la giurisprudenza di legittimità, salvo per alcune aperture di cui si è detto (v. Cass. n. 5632/2016 cit. secondo cui l’art. 230 bis cod. civ. è applicabile anche in presenza di una famiglia di fatto che costituisce una formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale) si è espressa in senso contrario all’estensione. Anche la giurisprudenza di merito ha escluso l’applicabilità dell’art. 230 bis cod. civ. ma, superata la presunzione di gratuità della prestazione, ha aperto all’applicazione, in via residuale, dell’art. 2041 cod. civ.
In dottrina le posizioni sono state più articolate. A fronte di posizioni in linea con la giurisprudenza restrittiva si è ritenuto che la collaborazione lavorativa prestata gratuitamente nell’ambito di uno stabile rapporto affettivo di coppia trova la sua causa nella solidarietà familiare con la conseguenza che anche il convivente stabile ha titolo per partecipare all’impresa familiare.
Da parte dei fautori dell’estensione si è valorizzato che l’impresa familiare rappresenta una forma generale di tutela del lavoro prestato per quello spirito di solidarietà che intercorre nei rapporti tra parenti e tra coniugi.
18. Una lettura estensiva dell’art. 230 bis cod. civ. non può ritenersi preclusa da una presunta natura eccezionale della disposizione, in considerazione del fatto che già Cass., Sez. Un., n. 23676/2014 cit. aveva riconosciuto che l’istituto dell’impresa familiare ha natura autonoma e carattere speciale (ma non eccezionale), nonché natura residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale o societario eventualmente configurabile in concreto. Del resto, l’impresa familiare rappresenta una forma generale di tutela del lavoro prestato per quello spirito di solidarietà che intercorre nei rapporti tra parenti e tra coniugi.
Pur nella consapevolezza di un’insopprimibile differenza strutturale tra la condizione del coniuge e quella del convivente – condizione, la prima, basata su di un legame che, lungi dall’aver senso solo giuridico, riflette una scelta, un impegno, un comportamento e dunque momenti del rapporto anche socialmente rilevanti e distintivi che il legislatore pone a base di scelte legislative specifiche – se si individua la ratio dell’art. 230 bis all’interno di un più generale rifiuto della (sia pur presunta) gratuità della prestazione in una certa relazione sociale, di vita, di affetti e di solidarietà, allora questo rifiuto potrebbe legittimamente trasferirsi a rapporti, diversi da quello di coniugio, nei quali si ravvisino caratteri analoghi (non solo la convivenza) così come ad essi si era estesa in passato quella presunzione, salvo determinare quali diverse conseguenze derivino, secondo i principi, da questo mutato presupposto.
In sostanza, se a fondamento della tutela enucleata dall’art. 230 bis cod. civ. si pone la prestazione continuativa del familiare, guardata come partecipazione ad un progetto lavorativa comune al gruppo e se si ravvisa il fulcro della disciplina nella tutela della persona che lavora, le obiezioni circa la sostanziale differenza tra posizioni di famiglia legittima e famiglia di fatto perdono gran parte della loro forza persuasiva, considerato che i valori costituzionali di riferimento sono quelli della dignità, della libertà e dell’uguaglianza. Se l’art. 230 bis è preordinato alla protezione del bene “lavoro” in ogni sua forma, allora questo non muta la propria ontologia a seconda del soggetto che lo svolga.
Non si tratta di porre sullo stesso piano coniugio e convivenza more uxorio ma di riconoscere un particolare diritto al convivente more uxorio e ripristinare ragionevolezza all’interno di un istituto che non può considerarsi eccezionale quanto piuttosto avente una funzione residuale e suppletiva, essendo diretto ad apprestare una tutela minima e inderogabile a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono negli aggregati familiari e che in passato vedevano alcuni membri della comunità familiare esplicare una preziosa attività lavorativa, in forme molteplici, senza alcuna garanzia economica e giuridica, ma che invece ora sono tutelati.
D’altra parte, questa “polifunzionali di tutela” dell’impresa familiare, discendente dalla sua ratio, farebbe il paio con una natura negoziale aperta dell’istituto cui le parti potrebbero ricorrere per il tramite dell’autonomia privata. In particolare, pur non rientrando espressis verbis l’ipotesi della convivenza more uxorio nella disposizione in esame, essa potrebbe comunque trovarvi accoglimento attraverso il consenso tacito o esplicito dei compartecipi, inteso quale consenso costitutivo di un rapporto societario avente come contenuto quello dell’impresa familiare essendo, infatti, ammissibile che le parti adottino volontariamente il modello di cooperazione e di solidarietà offerto dall’impresa familiare. Anche per questo verso l’istituto dell’impresa familiare può risultare strumento per realizzare, in mancanza di espressa previsione legislativa, l’esigenza di una più adeguata tutela di forme di lavoro.
In questa prospettiva non può non considerarsi l’evoluzione che si è avuta nella società con la sempre maggiore diffusione della convivenza more uxorio, evoluzione di cui hanno tenuto conto, in ambito nazionale, sia la Corte costituzionale sia il legislatore con la citata legge n. 76/2016. Ed allora la situazione del convivente more uxorio che per lungo tempo abbia lavorato nell’impresa familiare dell’altro convivente non pare integrare alcuno dei motivi eccezionali che possono legittimare una differenziazione rispetto alle persone che vivono una relazione formalizzata in un vincolo giuridico – sia esso matrimonio o altro tipo di unione registrata – e così l’esclusione di ogni tutela pare porsi in contrasto non solo con gli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost. ma soprattutto con la giurisprudenza della Corte EDU e con il diritto UE.
19. Argomenti a favore dell’estensione si possono ben trarre dalle pronunce della Corte costituzionale.
Già con la sentenza n. 476 del 1987 la Corte cost. aveva ritenuto che l’istituto dell’impresa familiare è stato introdotto in vista della meritoria finalità di dare tutela al lavoro comunque prestato negli aggregati familiari.
Con la sentenza n. 138 del 2010 la Corte cost. si è espressa sulla legittimità costituzionale delle disposizioni del codice civile nella parte in cui non consentivano il matrimonio tra persone dello stesso sesso; la Corte ha stabilito che per formazione sociale, rientrante nell’art. 2 Cost., deve intendersi ogni forma di comunità idonea a favorire lo sviluppo della persona nella vita di relazione, con valorizzazione di un modello pluralistico; in particolare, la Corte ha riconosciuto l’unione omosessuale come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto di vivere liberamente come coppia, con il riconoscimento giuridico e i connessi diritti e doveri. La Corte ha, inoltre, escluso che tale riconoscimento dovesse realizzarsi tramite una equiparazione tra matrimonio e unione omosessuale, attribuendo alla discrezionalità legislativa l’ambito applicativo del riconoscimento.
Con la sentenza n. 170 del 2014 la Corte cost. ha dichiarato, riportandosi alla precedente decisione del 2010, l’illegittimità costituzionale delle norme che non prevedevano la possibilità di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato, e adeguatamente tutelato, nel caso di sentenza di rettificazione di sesso di uno dei coniugi, che comporta lo scioglimento del matrimonio; la Corte demanda alla discrezionalità legislativa l’introduzione di una protezione giuridica diversa dal matrimonio e sollecita un intervento tempestivo del Parlamento.
Con la successiva pronuncia n. 182 del 2020 la Corte cost. ha riconosciuto il valore giuridicamente vincolante e sovraordinato della Carta dei diritti fondamentali, in un giudizio di rinvio relativo alla previsione del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo quale requisito per l’erogazione agli stranieri degli assegni di natalità e di maternità, ribadendo la propria competenza a sindacare gli eventuali profili di contrasto delle disposizioni nazionali con i principi enunciati dalla Carta rilevando che la Corte non può esimersi dal valutare se la disposizione nazionale censurata infranga, in pari tempo, i principi costituzionali e sovranazionali.
20. Non diversa è stata la posizione che, nel tempo, ha assunto la Corte Europea dei Diritto dell’Uomo. Fin dalla sentenza Marckx vs Belgio (ricorso n. 683/74) del 13 giugno 1979, la Corte EDU ha affermato che “la vita familiare comprende anche gli interessi materiali” ed ha esteso la nozione di vita familiare di cui all’art. 8 anche alla famiglia non legittima che, nel caso di specie, era costituita da una madre e dalla figlia nata fuori dal matrimonio. E così nel caso Keegan vs Irlanda, sentenza del 26 maggio 1994 ha affermato che la nozione di famiglia di cui all’art. 8 non è limitata alle relazioni fondate sul matrimonio e può oltrepassare di fatto i legami familiari quando le parti convivono fuori dal matrimonio (nella specie la legge irlandese sull’adozione negava al padre naturale, convivente di fatto con un’altra donna al momento della nascita del figlio, il diritto di prestare il proprio consenso all’affidamento del bambino da parte della madre). Ancora nel caso X., Y. e Z. vs Regno Unito, sentenza del 22 aprile 1997, la Corte europea ha ribadito che la nozione di vita familiare non è limitata alle coppie sposate e sottolineato che i criteri rilevanti per la definizione sono la convivenza della coppia, la lunghezza della relazione, la presenza di figli. Occorre quindi accertare l’esistenza di una relazione effettiva (nel caso di specie, la Corte ha ritenuto si potesse parlare di “vita familiare” in relazione alla situazione di convivenza tra un transessuale, la compagna e la figlia nata dalla loro unione). Ancora, con la sentenza del 5 gennaio 2010, nel caso Jaremowicz vs Polonia (ricorso n. 24023/03), la Corte dei diritti ha sottolineato le affinità e le differenze “strutturali” tra il diritto a contrarre matrimonio garantito dall’art. 12 CEDU e il diritto al rispetto della vita familiare di cui all’art. 8 CEDU; le differenze in particolare si riflettono sull’ampiezza del sindacato che può operare in materia la stessa Corte: nel caso dell’art. 12 CEDU, infatti, il controllo di conformità alla Convenzione deve limitarsi alla verifica dell’arbitrarietà e sproporzionalità delle scelte operate dagli Stati in virtù del margine di apprezzamento che la Convenzione riserva loro in materia (Par. 50). Così anche nel caso Moretti e Benedetti vs Italia (ricorso n. 16318/07), sentenza del 27 aprile 2010, la Corte ha ribadito che l’art. 8 trova applicazione anche rispetto a legami familiari di fatto, in presenza di vincoli di natura affettiva (i ricorrenti si erano visti rigettare la domanda di adozione di un neonato che, subito dopo la nascita, era stato collocato provvisoriamente presso di loro, in quanto la madre aveva rifiutato di riconoscerlo: la Corte europea ha osservato che l’art. 8 è applicabile anche nei confronti dei ricorrenti, benché essi non abbiano potestà genitoriale sul bambino, perché tale disposizione si applica anche ai legami familiari di fatto, in presenza di vincoli di natura affettiva).
La famiglia è considerata, a livello di normativa e giurisprudenza europea, sia nella sua versione tradizionale, composta da due membri di sesso diverso uniti in matrimonio, sia nella versione moderna costituita da coppie non unite in matrimonio, ma semplicemente conviventi, siano esse di sesso diverso o dello stesso sesso e la convivenza qualifica il rapporto che lega i famigliari di fatto. Non si esige una disciplina dei differenti modelli familiari identica a quella del matrimonio ma una disciplina non discriminatoria (art. 14 della CEDU) che salvaguardi e rispetti le scelte familiari della persona.
Sempre la Corte EDU, Schalk and Kopf vs Austria, 24 giugno 2010 ha riconosciuto alle coppie omo-affettive il diritto al rispetto della vita familiare ex art. 8 CEDU, includendole nella definizione di “famiglia”, anche in base ad una interpretazione evolutiva dell’art. 12 CEDU (“Diritto al matrimonio”: “A partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto”) e in relazione all’art. 9 della Carta di Nizza_(“Diritto di sposarsi e di costituire una famiglia”: “Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”).
La Corte EDU, Grande chambre, 7 novembre 2013, Vallianatos e altri vs Grecia ha statuito circa il diritto del singolo, una volta instaurato il legame di coppia, all’uguaglianza con il partner, tutelato non tanto in base all’art. 5 del Protocollo n. 7 alla Convenzione sulla parità tra i coniugi quanto sul fondamento degli artt. 8 e 14 CEDU e confermato la non necessaria coabitazione per l’individuazione della famiglia di fatto.
Sempre Corte EDU, nella già citata Oliari e altri vs Italia, 21 luglio 2015 ha sancito la violazione dell’art. 8 CEDU per omissioni del Governo italiano, ossia per non aver adempiuto all’obbligo positivo di assicurare alle coppie omo-affettive la disponibilità di uno specifico strumento/istituto di tutela dei propri diritti e doveri, nonostante la giurisprudenza ne avesse ravvisato la necessità di intervento.
21. Insomma, prendendo le mosse dai principi generali che vengono in rilievo in questo particolare settore, che coinvolge tanto la materia della famiglia quanto quella del lavoro, sia la Corte EDU sia la Corte costituzionale, pur riconoscendo la discrezionalità del legislatore nel prevedere diverse soglie di tutela dei vincoli discendenti dal matrimonio e dalla convivenza di fatto in relazione alla necessità di proteggere i controinteressi in gioco hanno tuttavia stigmatizzato che nessuna situazione espressiva della scelta di un differente modello familiare può restare priva di tutela. Infatti, benché la Corte EDU riconduca nella sfera applicativa dell’art. 8 CEDU, nella parte in cui protegge la “vita familiare”, la tutela dei vincoli affettivi discendenti dalla convivenza di fatto, tuttavia, considera legittima la limitazione di tale diritto, riconoscendo altresì la possibilità di bilanciamenti differenziati per le coppie sposate e le convivenze di mero fatto, secondo la discrezionale valutazione del legislatore (cfr., Corte EDU, 3 aprile 2012, Van der Heijdel vs Netherlands). Ma di bilanciamento deve pur sempre trattarsi. Non di indifferenza del legislatore.
22. Sul piano costituzionale va ricordato che, l’art. 2 (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”) è pacificamente considerato, soprattutto a partire dalla sopra citata sent. 138 del 2010 della Consulta, il referente costituzionale della famiglia di fatto. A titolo esemplificativo si pensi a Cass. 3 aprile 2015, n. 6855 (conf. Cass. 8 febbraio 2016, n. 2466), la quale ha affermato che “l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà post-matrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo”. Si pensi ancora alla recentissima Cass., Sez. Un., 18 dicembre 2023, n. 35385 – deliberata il 26 settembre 2023 -, che, pur precisato che permane, nel nostro ordinamento, una differenza fondamentale tra matrimonio e convivenza, anche dopo la disciplina della legge n. 76/2016, fondata sulla differenza dei modelli, dato che il matrimonio e, per volontà del legislatore, l’unione civile, appartengono ai modelli c.d. “istituzionali”, mentre la convivenza di fatto, al contrario, è un modello “familiare non a struttura istituzionale”, tuttavia, ha evidenziato che convivenza e matrimonio sono comunque modelli familiari dai quali scaturiscono obblighi di solidarietà morale e materiale, anche a seguito della cessazione dell’unione istituzionale e dell’unione di fatto ed ha affermato che “ai fini dell’attribuzione e della quantificazione, ai sensi dell’art. 5, comma 6, l. n. 898/1970, dell’assegno divorzile, avente natura, oltre che assistenziale, anche perequativo-compensativa, nei casi peculiari in cui il matrimonio si ricolleghi a una convivenza prematrimoniale della coppia, avente i connotati di stabilità e continuità, in ragione di un progetto di vita comune, dal quale discendano anche reciproche contribuzioni economiche, laddove emerga una relazione di continuità tra la fase “di fatto” di quella medesima unione e la fase “giuridica” del vincolo matrimoniale, va computato anche il periodo della convivenza prematrimoniale, ai fini della necessaria verifica del contributo fornito dal richiedente l’assegno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei coniugi, occorrendo vagliare l’esistenza, durante la convivenza prematrimoniale, di scelte condivise dalla coppia che abbiano conformato la vita all’interno del matrimonio e cui si possano ricollegare, con accertamento del relativo nesso causale, sacrifici o rinunce, in particolare, alla vita lavorativa/professionale del coniuge economicamente più debole, che sia risultato incapace di garantirsi un mantenimento adeguato, successivamente al divorzio”.
Ed allora, posto che la convivenza more uxorio è in concreto capace di corrispondere alle medesime esigenze di realizzazione dei fondamentali bisogni affettivi della persona allo stesso modo del rapporto coniugale, come appare incontestabile, l’indicazione che dà l’art. 2 Cost. è, precisamente, nel senso di una considerazione unitaria delle due situazioni e non già differenziata. Ed in tale cornice si inserisce il contributo collaborativo di cui all’art. 230 bis cod. civ. che trova pur sempre causa nei vincoli di solidarietà ed affettività esistenti, a prescindere dal legame formale.
L’irragionevole esclusione da parte della norma suddetta di ogni tutela, anche minima, nei confronti del convivente di fatto rileva anche con riguardo all’art. 3 della Cost. sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza, atteso che, per effetto dell’applicazione della disposizione censurata, si determina una vera e propria discriminazione tra soggetti che esplicano la medesima attività in modo continuativo nell’impresa familiare. Ed infatti una disparità di trattamento fondata sulla (sola) condizione personale (la qualità di coniuge) a fronte di una sostanziale equivalenza nell’attività dell’impresa finisce per porre un ostacolo di ordine economico all’uguaglianza dei cittadini.
Si pone, anche, la violazione dell’art. 4 Cost. (“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”) e dello stretto legame tra il lavoro, che non è fine in sé o mero strumento di guadagno, ma mezzo di affermazione della personalità del singolo oltre che garanzia di sviluppo delle capacità umane e del loro impiego, ed i valori di effettiva libertà e dignità di ogni persona.
Né va sottaciuta la violazione dell’art. 35, comma 1, Cost. (“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”) e dell’art. 36, comma 1, Cost. (“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”), quali baluardi a garanzia del lavoro e della retribuzione considerato che, nello specifico, le prestazioni lavorative rese nell’ambito di un rapporto di convivenza more uxorio e mosse dal medesimo spirito di solidarietà che caratterizza il lavoro coniugale sono destinate a rimanere prive di tutela e così di quella tutela riconosciuta in presenza di un legame formale. Ciò è tanto più difficile da comprendere se si considera che anche i rapporti tra coniugi possono modularsi secondo gli strumenti di diritto comune, essendo l’impresa familiare un istituto a carattere meramente residuale. L’esigenza di far ricorso all’art. 230 bis cod. civ. nel caso della convivenza more uxorio si pone, dunque, negli stessi termini in cui si pone per il rapporto di coniugio: garantire la tutela del lavoro dal rischio che, non essendo possibile fornire la prova specifica che sia stato prestato a titolo oneroso, possa essere presuntivamente ritenuto prestato a titolo gratuito.
Sul piano del diritto unionale va richiamato l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. (“Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”), approvata dal Parlamento europeo il 14 novembre 2000, formalmente proclamata a Nizza il 7-8 dicembre 2000 e divenuta giuridicamente vincolante (ex art. 6, par. 1, TUE) a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Con tale disposizione, infatti, il “diritto di sposarsi” viene riconosciuto tra le libertà fondamentali tutelate dal capo secondo, in modo disgiunto rispetto al “diritto di fondare una famiglia”, così realizzando una significativa apertura nei confronti delle famiglie di fatto, in quanto la meritevolezza degli interessi perseguiti attraverso la scelta, del tutto legittima, di convivere senza matrimonio viene riconosciuta e tutelata anche al di fuori della presenza di vincoli formali nei rapporti familiari. Come evidenziato anche nell’ordinanza interlocutoria, al tradizionale favor per il matrimonio si sostituisce in tal modo la pari dignità di ogni forma di convivenza alla quale una legislazione nazionale decida di dare la sua regolamentazione.
Infine, va ricordato che la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), dedica alla famiglia gli artt. 8, comma 1 (“Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza”) e 12 (“A partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto”), che rispettivamente sanciscono il diritto al rispetto della vita privata e familiare (oltre che del domicilio e della corrispondenza) e il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia.
I giudici di Strasburgo, come già sopra accennato, hanno interpretato evolutivamente la nozione di “vita familiare” di cui all’art. 8 CEDU, includendovi, oltre al rapporto di coniugio in senso stretto, la parentela tra nonni e nipoti (sentenza 13 luglio 2000, n. 39221, Scozzari e Giunta vs Italia), zii e nipoti (sentenza 3 giugno 2004, 1° sez., E. Zampieri vs Italia) purché venga provata l’esistenza di legami personali affettivi (come la coabitazione o le visite frequenti) ed anche la relazione di una coppia omosessuale (v. la già ricordata sentenza del 24 giugno 2010, prima sezione, caso Schalk and Kopf vs Austria). Ed infatti ad avviso della consolidata giurisprudenza della Corte EDU, in materia di coppie eterosessuali, la nozione di “famiglia” in base a questa disposizione non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio e può comprendere altri legami “familiari” di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo del matrimonio.
La Corte ha, peraltro, in questi casi, riconosciuto generalmente agli Stati contraenti la facoltà di accordare una tutela diversificata alle coppie unite in matrimonio.
Più recentemente, tuttavia, la Corte, pur ribadendo come né l’apertura del matrimonio alle coppie same-sex, né il riconoscimento del matrimonio omosessuale celebrato all’estero costituiscano obblighi convenzionali, ha ritenuto contraria all’art. 8 CEDU la totale assenza di riconoscimento giuridico dell’unione omosessuale. L’Italia è stata, così, condannata, nel 2015 e nel 2017, per non avere predisposto – prima dell’entrata in vigore della citata legge di disciplina delle unioni civili 20 maggio 2016, n. 76 -alcun quadro di tutela giuridica in favore delle coppie di persone dello stesso sesso, inibendo, di conseguenza, anche il riconoscimento delle relazioni costituite all’estero-(cfr. sentenza Oliari e altri vs Italia cit.).
La stessa possibilità di ingerenza degli Stati nazionali nei diritti alla “vita familiare” delle coppie sposate o di fatto è stata circoscritta dalla necessaria osservanza dei principi di legalità, necessità e proporzionalità, elaborando in talune circostanze dei veri e propri obblighi positivi volti alla promozione dei suddetti diritti ed alla protezione da attacchi da parte di soggetti privati (si veda sempre la già citata pronuncia della Corte EDU, 21 luglio 2015, Oliari ed altri vs Italia, sulla non indispensabilità della coabitazione ai fini della individuazione di una famiglia di fatto).
23. Tutte le considerazioni che precedono e la circostanza che, in tema di impresa familiare, irragionevole è un trattamento differenziato del lavoro prestato dal convivente rispetto a quello del familiare, deporrebbero per la possibilità di una lettura estensiva dell’art. 230 bis cod. civ. nel senso di un riconoscimento al convivente more uxorio degli stessi diritti previsti per il coniuge e così sia per quelli economico-partecipativi sia per quelli gestionali, quale insieme di necessaria ed indissolubile applicazione.
Però, come già accennato, ciò determinerebbe una distonia sistemica.
Una ritenuta possibilità di includere nel novero dei familiari di cui all’art. 230 bis cod. civ. anche il convivente di fatto determinerebbe un effetto pressappoco paradossale, ossia quello di fornire tutela ad una situazione giuridica, l’attività del convivente nell’impresa familiare, che fino al 2016 non solo non era tipizzata, ma per la giurisprudenza prevalente, addirittura esclusa dall’alveo applicativo dell’art. 230 bis, ma soprattutto si accorderebbe al convivente, ex post, alla luce di un raffronto strutturale tra l’art. 230 bis e l’art. 230 ter, una tutela che, per i fatti antecedenti al 2016, risulta essere superiore rispetto a quella poi espressamente prevista dal legislatore con la l. n. 76/2016 (non senza rilievi in termini di irragionevolezza – che qui non sono approfondibili per non essere la norma indicata ratione temporis applicabile alla fattispecie in esame ma che vale la pena di accennare ai fini della eventuale illegittimità costituzionale derivata ex art. 27 legge 11 marzo 1953, n. 87 – sol che si consideri che il riconoscimento del mero diritto a partecipare agli utili, ai beni e agli incrementi non pare certo idoneo ad assicurare una sufficiente tutela sul piano patrimoniale al convivente lavoratore, il quale, in caso di mancata produzione di utili, finirebbe per essere privato di ogni compenso per l’attività lavorativa prestata, in contrasto con quella stressa prefigurazione di un nucleo essenziale di tutela cui, come detto, l’ordinamento è tenuto, oltre che con il principio di parità di trattamento del lavoro prestato).
24. Ed allora va posta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 230 bis cod. civ. nella parte in cui non include nel novero dei familiari anche il convivente di fatto per violazione dei sopra ricordati artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., nonché dell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., ed ancora, per il tramite dell’art. 117, comma 1 Cost., degli artt. 8 e 12 CEDU.
Le censure di incostituzionalità si riverberano, in termini di illegittimità derivata, anche sull’art. 230 ter cod. civ. che, come detto, non ha riconosciuto al convivente di fatto la stessa tutela del coniuge/familiare ma una tutela differenziata ed inferiore.
25. Conclusivamente, essendo non percorribile, data l’insuperabilità della lettera dell’art. 230 bis cod. civ. e gli evidenziati rischi di distonia del sistema, la strada di una interpretazione della disposizione qui in esame conforme alla Costituzione ed alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea né essendo possibile recepire direttamente i principi enunciati dalla Corte EDU, sopra richiamati, il Collegio ritiene che l’art. 230 bis cod. civ. disponendo, al primo comma che “il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato” ed indicando, al terzo comma che “ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo”, ponga concreti dubbi di costituzionalità nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, per violazione degli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione, nonché per violazione dell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dell’art. 117, comma 1, Cost., novellato dalla legge costituzionale del 18 ottobre 2001 n. 3, in riferimento agli artt. 8 e 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
26. Il giudizio deve essere pertanto sospeso e gli atti rinviati alla Corte costituzionale affinché verifichi la fondatezza dei dubbi di costituzionalità in questa sede esposti.
L’impresa familiare e il dubbio di costituzionalità nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio
P.Q.M.
La Corte, visti gli artt. 134 Cost. e 23 della L. 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione, all’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ed all’art. 117, comma 1, Cost., in riferimento agli artt. 8 e 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 230 bis cod. civ. là dove, disponendo, al primo comma che “il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato” ed indicando, al terzo comma che “ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo”, non include nel novero familiari il convivente more uxorio.
Sospende il presente giudizio. Ordina che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti del giudizio di cassazione, al Pubblico Ministero presso questa Corte ed al Presidente del Consiglio dei ministri; ordina, altresì, che l’ordinanza venga comunicata dal Cancelliere ai Presidenti delle due Camere del Parlamento; dispone l’immediata trasmissione degli atti, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte notificazioni e comunicazioni, alla Corte costituzionale.
Così deciso in Roma, alla udienza pubblica in data 24 ottobre 2023.
Depositata in Cancelleria il 18 gennaio 2024.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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