Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|| n. 20713.
Fideiussione omnibus e la Nullità
La banca che, pur conoscendone le difficoltà economiche, concede finanziamenti al debitore principale confidando nella solvibilità del fideiussore, senza informare quest’ultimo dell’aumentato rischio e senza chiederne la preventiva autorizzazione, incorre in violazione degli obblighi generici e specifici di correttezza e di buona fede contrattuale. La mancata richiesta di autorizzazione non può tuttavia configurare una violazione contrattuale liberatoria se la conoscenza delle difficoltà economiche in cui versa il debitore principale è comune o può presumersi tale. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, la quale aveva escluso l’effetto liberatorio ex art. 1956 c.c. in ragione del fatto che, dei tre fideiussori ricorrenti – tutti legati da rapporti di parentela -, uno era socio della società garantita e un altro ne era stato, in precedenza, amministratore).
Ordinanza|| n. 20713. Fideiussione omnibus e la Nullità
Data udienza 17 maggio 2023
Integrale
Tag/parola chiave: Fideiussione omnibus – Nullità – Rilievo d’ufficio – Limiti
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Presidente
Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere
Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere
Dott. GUIZZI Stefano – Consigliere
Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 13385 del 2020 proposto da:
(OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS);
– ricorrenti –
contro
(OMISSIS) s.r.l. e per essa, in qualita’ di mandataria, (OMISSIS) s.r.l., in persona procuratore speciale (OMISSIS), elettivamente domiciliata presso l’avvocato (OMISSIS), (OMISSIS);
– controricorrente –
e
(OMISSIS) s.p.a., (OMISSIS) s.p.a.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 44/2020 della CORTE D’APPELLO di udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/05/2023 dal Consigliere Dr. FRANCESCO MARIA CIRILLO.
Fideiussione omnibus e la Nullità
FATTI DI CAUSA
1. Con decreto provvisoriamente esecutivo il Tribunale di Biella ingiunse alla (OMISSIS) s.r.l. quale debitore principale e a (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), quali fideiussori omnibus fino alla concorrenza di Euro 230.000, il pagamento della complessiva somma di Euro 563.497,50 in favore della (OMISSIS) s.p.a., a titolo di scoperto di conto corrente.
Si opposero al decreto ingiuntivo (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), convenendo il giudizio anche la societa’ (OMISSIS) e (OMISSIS), contestando in vario modo la pretesa della Banca creditrice e chiedendo la revoca del decreto ingiuntivo e la cancellazione dell’ipoteca giudiziale iscritta dalla Banca.
Nel giudizio si costituirono la Banca creditrice, chiedendo il rigetto dell’opposizione, nonche’ la (OMISSIS) s.r.l. e (OMISSIS).
Il Tribunale – dichiarata la cessazione della materia del contendere tra la (OMISSIS) s.r.l. e (OMISSIS) per sopraggiunto accordo transattivo con la (OMISSIS) – rigetto’ l’opposizione e la domanda di cancellazione dell’ipoteca e condanno’ gli opponenti al pagamento delle spese di giudizio.
2. La sentenza e’ stata impugnata dai debitori soccombenti e la Corte d’appello di Torino, con sentenza del 14 gennaio 2020, ha rigettato il gravame e ha condannato gli appellanti alla rifusione delle ulteriori spese del grado.
La complessa e articolata motivazione puo’ essere suddivisa come segue.
2.1. La Corte d’appello, innanzitutto, ha confermato il rigetto dell’eccezione di incompetenza per territorio avanzata dai fideiussori in primo grado e ripetuta come motivo d’appello.
Ha osservato che la clausola m) contenuta nel contratto di fideiussione, indicando come foro competente quello di Biella, era del tutto idonea allo scopo, pur non contenendo la specificazione del suo carattere esclusivo e della natura derogatoria rispetto alle regole ordinarie.
Non poteva essere attribuita alcuna conseguenza alla dimensione dei caratteri utilizzati e alla distribuzione del testo; la previsione derogatoria, infatti, pur essendo redatta con “caratteri di dimensioni non particolarmente grandi”, era formulata con una tecnica che non lasciava dubbi.
I contraenti, infatti, avevano sottoscritto le tre righe del testo indicando contestualmente l’elezione di domicilio nel Comune di (OMISSIS) e l’accettazione della competenza esclusiva del Tribunale di Biella; d’altra parte, gli spazi previsti per le aggiunte a mano, riguardanti non solo il luogo di elezione di domicilio ma anche il foro esclusivo, implicavano necessariamente la necessita’ di leggere l’intera clausola e di prestarle la dovuta attenzione, per cui non era possibile alcuna confusione.
2.2. In relazione, poi, al limite dell’impegno dei fideiussori, fissato nel contratto in Euro 230.000, la sentenza ha osservato che lo stesso decreto ingiuntivo conteneva l’espressa indicazione per cui, mentre la debitrice principale era tenuta al pagamento dell’intera somma, l’obbligazione dei fideiussori (OMISSIS) e (OMISSIS) era contenuta nei limiti della somma indicata; com’era confermato, tra l’altro, dal fatto che l’ipoteca giudiziale era stata iscritta entro quel limite.
2.3. La Corte territoriale e’ poi passata ad affrontare il problema della liberazione dei fideiussori ai sensi dell’articolo 1956 c.c., invocata dagli appellanti sul rilievo che la (OMISSIS) avrebbe indebitamente aggravato la loro posizione.
Dopo aver riassunto in cinque diversi punti le censure mosse alla sentenza del Tribunale a questo riguardo, la Corte d’appello ha richiamato il contenuto e le finalita’ dell’articolo 1956 cit. e ha escluso che, nella specie, esso potesse trovare applicazione. Il punto in contestazione riguardava la circostanza per cui la (OMISSIS) – la quale aveva gia’ concesso nel 2008 un’apertura di credito per la somma di Euro 200.000 e un castelletto di Euro 100.000 – aveva poi concesso un ulteriore credito alla debitrice, in data 16 febbraio 2011, asseritamente lesivo dei diritti dei fideiussori. Secondo la Corte d’appello, invece, tale lesione non sussisteva, perche’ l’indebitamento della s.r.l. (OMISSIS) non era dipeso dalla concessione di nuovo credito avvenuta nel 2011, ma dal superamento dei limiti del fido del 2008. In altri termini, gli affidamenti del 2011 erano serviti “semplicemente a “coprire” il precedente indebitamento extrafido”, dipeso dal comportamento della debitrice principale; ragione per cui la Banca non aveva concesso un ulteriore credito al debitore, ma si era limitata a regolare diversamente (a condizioni piu’ favorevoli rispetto a quelle extrafido) la precedente esposizione debitoria, “di entita’ gia’ superiore ai limiti della garanzia prevista dai (OMISSIS)/ (OMISSIS)”, con la conseguenza che la successiva apertura di credito non aveva aggravato la posizione dei fideiussori (per cui non vi era spazio per applicare l’articolo 1956 cit.).
Oltre a questo, ha aggiunto la Corte d’appello, l’omessa richiesta di autorizzazione non puo’ determinare le conseguenze previste dall’articolo 1956 c.c. se la situazione di difficolta’ economica del debitore e’ conosciuta o si deve presumere conosciuta dal fideiussore. Nel caso di specie, vi erano altre due ragioni che inducevano al rigetto del motivo di appello in esame: l’esistenza di una clausola contrattuale che prevedeva un obbligo informativo a carico dei garanti e l’esistenza di vincoli familiari ritenuti decisivi. All’epoca dei fatti (OMISSIS) era socio della s.r.l. (OMISSIS) al 30 per cento (e (OMISSIS) lo era al 70 per cento), mentre (OMISSIS) era stato amministratore della societa’; per cui non era credibile che quest’ultimo, una volta lasciata la carica, si fosse disinteressato della societa’ che aveva
Data pubblicazione 17/07/2023
amministrato. Quanto alla (OMISSIS), ella era moglie e madre di (OMISSIS) e (OMISSIS), per cui anche per lei sussisteva una presunzione di conoscenza della difficolta’ economica della societa’ garantita.
Non poteva essere taciuto, infine, che l’apertura di credito del 2011 non aveva aggravato la posizione dei garanti anche perche’ essi si erano obbligati nei limiti di una somma (Euro 230.000, come detto) gia’ assorbita dalla precedente esposizione debitoria.
2.4. La Corte d’appello ha poi affrontato il problema dell’interpretazione della garanzia prestata dagli appellanti.
Richiamati i principi della giurisprudenza di legittimita’ sulla distinzione tra fideiussione e contratto autonomo di garanzia, ha messo in luce che nel caso di specie il contratto prevedeva l’obbligo di rimborso, da parte dei garanti, “a prima richiesta” e senza eccezioni, il che gia’ di per se’ induceva ad affermare che si trattava di un contratto autonomo di garanzia. Ne’ poteva porsi un problema di vessatorieta’, trattandosi del tipo contrattuale prescelto.
Quanto, poi, alla prova del credito, ha affermato che era stata prodotta la documentazione idonea a dimostrare “la completa ricostruzione della movimentazione contabile del conto corrente della debitrice principale”, per cui nessun altro elemento poteva essere preteso.
2.5. In ultimo, la Corte d’appello ha rilevato che gli appellanti avevano dedotto, per la prima volta in sede di comparsa conclusionale, “la nullita’ della garanzia da essi prestata per violazione della normativa antitrust”, siccome sottoscritta su di un modello redatto dall’Associazione bancaria italiana. Ha stabilito la sentenza che l’eccezione era inammissibile perche’ tale nullita’, pur potendo essere rilevata d’ufficio, si fondava e presupponeva determinate circostanze di fatto che avrebbero dovuto essere introdotte in primo grado (in particolare, la conformita’ al modello ABI e la produzione del relativo modello). Non essendo cio’ avvenuto, la questione non poteva essere ammessa se non con violazione dell’articolo 345 c.p.c., perche’ “la rilevabilita’ d’ufficio delle nullita’ implica che siano tempestivamente dedotti i fatti da cui esse derivano”.
3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Torino propongono ricorso (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) con un unico atto affidato a sette motivi.
Resiste con controricorso la (OMISSIS) s.r.l. e per essa, in qualita’ di mandataria, la (OMISSIS), come cessionaria del credito.
Gli altri intimati non hanno svolto attivita’ difensiva in questa sede.
Le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo i ricorrenti denunziano, in riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1 n. 3), la violazione e falsa applicazione dell’articolo 1341 c.c., comma 2, anche alla luce dell’articolo 2697 c.c. e dell’articolo 115 c.p.c., comma 2, per nullita’ e invalidita’ della clausola derogatoria della competenza.
Lamentano che la clausola m) della fideiussione da loro prestata, che prevede una deroga della competenza per territorio, non puo’ essere considerata valida.
Apposta in calce “ad un farraginoso riepilogo delle clausole negoziali, ove la disposizione in questione era stata riportata in termini assai sintetici e sommari”, non contiene invero la specifica previsione di esclusivita’ della competenza del Tribunale di Biella.
L’articolo 1341 c.c., comma 2, prevede l’obbligo della duplice sottoscrizione proprio allo scopo di richiamare in modo adeguato l’attenzione di chi firma.
Nella sentenza impugnata, trascurando la mancata indicazione dell’esclusivita’ e ritenendo sufficiente “il generico riferimento alla presenza nel testo negoziale di una clausola d’individuazione del foro competente”, la corte di merito non ha considerato che detta clausola non e’ idonea a richiamare l’attenzione del contraente debole, come confermato anche dall’utilizzo di un carattere di dimensione ridotta pe mimetizzare la deroga.
La decisione della Corte d’appello, apodittica sul punto, e’ fondata “sulla supposizione, per il vero arbitraria, che la compilazione dei campi da completare a penna sarebbe avvenuta per mano degli esponenti”, invero in contrasto anche con le regole sull’onere della prova, essendo la sentenza fondata su un’erronea nozione di fatto notorio.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano, in riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 2), la nullita’ della sentenza, in quanto pronunciata da un giudice incompetente per territorio.
Il motivo, strettamente connesso col precedente, e’ volto a censurare la violazione delle regole sulla competenza sotto un altro profilo.
Deducono i ricorrenti che l’affermata competenza del Tribunale di Biella e’ in contrasto con le regole di cui agli articoli 18, 19 e 20.
Essi hanno infatti eletto domicilio a (OMISSIS), per cui il foro generale delle persone fisiche era da individuarsi nel Tribunale di Bologna, competente anche in base all’articolo 20 cit., essendo l’obbligazione sorta in (OMISSIS), essendo stata la fideiussione firmata nei locali della (OMISSIS) siti in quel Comune.
Poiche’ la fideiussione e’ un contratto con obbligazioni a carico del solo proponente, la proposta firmata dagli odierni ricorrenti a (OMISSIS) e’ da considerare accettata nel momento in cui e’ pervenuta a conoscenza della Banca destinataria (articolo 1333 c.c.).
Quanto al forum destinatae solutionis e’ anch’esso da identificare nel Comune di (OMISSIS), luogo convenzionale di esecuzione della prestazione a norma dell’articolo 1182 c.c.; ragione per cui la competenza deve essere radicata in ogni caso presso il Tribunale di Bologna.
3. I due motivi possono essere trattati congiuntamente, avendo entrambi ad oggetto la questione della presunta incompetenza per territorio del Tribunale di Biella.
In ordine logico assumono carattere preliminare le questioni poste nel primo motivo, ove i ricorrenti contestano il carattere “non esclusivo” della clausola pattuita e la mancanza di chiarezza della deroga ivi contenuta.
Giova premettere, al riguardo, che la giurisprudenza di questa Corte ha in piu’ occasioni affermato che la designazione convenzionale di un foro territoriale, anche se coincidente con uno di quelli previsti dalla legge, non attribuisce a tale foro carattere di esclusivita’ in difetto di pattuizione espressa in tal senso; pattuizione che, pur non dovendo rivestire formule sacramentali, non puo’ essere desunta in via di argomentazione logica da elementi presuntivi, dovendo per converso scaturire da una non equivoca e concorde manifestazione di volonta’ delle parti volta ad escludere la competenza degli altri fori previsti dalla legge. Ne discende che una clausola con la quale sia stabilita la competenza di un certo foro “per qualsiasi controversia” e’ inidonea ad individuare un foro esclusivo, poiche’ a siffatte espressioni – in mancanza di una specificazione della volonta’ delle parti di considerare quest’ultimo come l’unico applicabile – deve attribuirsi soltanto il significato di individuare l’ambito oggettivo di applicabilita’ di quel foro (ordinanze 9 agosto 2007, n. 17449, 4 settembre 2014, n. 18707, 21 luglio 2015, n. 15278, e 6 ottobre 2020, n. 21362).
Ora, tenendo in considerazione che questa Corte e’, in materia di competenza, giudice anche del fatto, e’ consentito il controllo diretto degli atti processuali allo scopo di esaminare il contenuto della clausola derogatoria della competenza. E da tale controllo emerge in modo incontestabile che nel contratto di fideiussione del 5 ottobre 2004 stipulato, tra gli altri, dagli odierni ricorrenti, la clausola m) prevede la competenza esclusiva del foro di Biella, come del resto risulta anche dallo stesso ricorso (p. 5). E si tratta di clausola assoggettata alla doppia firma ai sensi degli articoli 1341 e 1342 c.c., di talche’ non puo’ residuare alcun dubbio sulla sua esclusivita’.
La Corte d’appello, del resto, ha avuto cura di supportare il rigetto del motivo sull’incompetenza osservando, come si e’ detto, che la clausola derogatoria doveva essere parzialmente riempita a mano e che contestualmente essa prevedeva anche l’elezione di domicilio dei fideiussori a (OMISSIS), il che costituiva indice sicuro del fatto che i firmatari avrebbero potuto e dovuto prestare la necessaria attenzione nel momento della sottoscrizione, trattandosi dell’indicazione di due luoghi differenti nel medesimo contesto. A cio’ deve aggiungersi che la Corte d’appello, con un accertamento di merito insindacabile in questa sede, ha anche stabilito che la clausola derogatoria era comunque sufficientemente intelligibile e chiara, nonostante i caratteri non particolarmente grandi.
Deve ritenersi infondato, quindi, il primo motivo di ricorso.
Dall’infondatezza del primo deriva il rigetto anche del secondo, posto che la giurisprudenza di questa Corte ha gia’ chiarito che la parte la quale eccepisce l’incompetenza territoriale del giudice adito invocando l’operativita’ di un foro convenzionale esclusivo, non e’ tenuta anche a contestare tutti i fori alternativamente previsti in materia di obbligazioni contrattuali, in quanto la pattuizione di un foro esclusivo ha proprio l’effetto di eliminare il concorso degli altri fori previsti dalla legge, i quali restano percio’ inoperanti nei confronti delle controversie scaturenti dal contratto che contenga detta pattuizione (sentenza 1 agosto 2001, n. 10449, confermata dall’ordinanza 18 giugno 2018, n. 15958).
Ne consegue che, una volta accertata la validita’ e operativita’ della clausola derogatoria contenente l’indicazione di un foro esclusivo, non occorre verificare la validita’ della deroga anche in relazione ai fori generali richiamati nel secondo motivo di ricorso (articoli 18, 19 e 20 c.p.c.).
Sono quindi rigettate tutte le censure in ordine alla competenza per territorio.
4. Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano, in riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1 n. 3), violazione e falsa applicazione dell’articolo 345 c.p.c., commi 2 e 3, in relazione alla declaratoria di inammissibilita’ formulata dalla Corte d’appello a proposito dell’eccezione di nullita’ riguardante la clausola ABI per violazione della normativa antitrust.
Deducono di aver sollevato per la prima volta in sede di comparsa conclusionale del giudizio di appello l’eccezione di nullita’ della fideiussione in oggetto, per violazione della normativa antitrust; eccezione che la Corte d’appello non ha esaminato, ritenendola inammissibile. In realta’ la Banca d’Italia, con il proprio provvedimento 2 maggio 2005, n. 55, invocato a sostegno dell’eccezione, aveva gia’ compiuto una serie di accertamenti da ritenere decisivi, come previsto anche dalla giurisprudenza di questa Corte. Quel provvedimento avrebbe dovuto essere preso in considerazione dal giudice d’appello, posto che nessuna violazione dell’articolo 345 cit. sussisteva. Da un lato, infatti, gli esiti dell’istruttoria e le verifiche compiuti dalla Banca d’Italia dovrebbero essere considerati fatti notori; da un altro lato, i fideiussori avevano prodotto quel provvedimento, la cui valutazione processuale era indispensabile in quanto aveva ad oggetto la validita’ stessa del contratto di fideiussione del 5 ottobre 2004 invocato dalla Banca a fondamento della pretesa. L’eccezione di nullita’, quindi, non poteva ritenersi preclusa, anche perche’ la mancata produzione del modello di fideiussione bancaria predisposto dall’ABI non era un presupposto fondamentale per il vaglio di tale eccezione. Una volta che la Banca d’Italia aveva accertato che gli articoli 2, 6 e 8 dello schema predisposto dall’ABI per le fideiussioni bancarie omnibus erano in contrasto con la L. n. 287 del 1990, articolo 2, lettera a), e una volta accertato che quelle clausole erano state diffuse dall’ABI ai vari istituti di credito, al giudice civile non restava altro che un compito piu’ limitato, cioe’ quello di stabilire se le disposizioni contrattuali contengano o meno le condizioni oggetto dell’intesa restrittiva della concorrenza. Verifica che, secondo i ricorrenti, prescinde “dall’esame in se’ del modello ABI – che pure e’ presumibile che (OMISSIS) s.p.a. avesse adottato in toto, essendo pacifica la sua qualita’ di associata ABI”.
5. Con il quarto motivo di ricorso lamentano, in riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1 n. 5), omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio costituito dalla circostanza che nella fideiussione stipulata fossero presenti clausole negoziali di contenuto analogo a quelle censurate dalla Banca d’Italia nel provvedimento di cui al motivo precedente.
Questa censura e’ posta in via subordinata rispetto a quella del terzo motivo.
I ricorrenti sostengono che l’eccezione di nullita’ proposta, riguardando fatti costitutivi della domanda gia’ acquisiti al giudizio, costituisce un’eccezione in senso lato, come tale rilevabile anche d’ufficio. In particolare, il provvedimento n. 55 del 2005 della Banca d’Italia ha individuato nello schema contrattuale di fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie concordato dall’ABI fin dal 2002 alcune previsioni la cui generalizzata applicazione da parte degli istituti di crediti risulta essere attuativa di condotte anticoncorrenziali.
Richiamano nel ricorso, a questo proposito, le previsioni degli articoli 2, 6 e 8 di quel contratto tipo, che la Banca d’Italia ha censurato nei termini gia’ detti.
La fideiussione stipulata e’ asseritamente coincidente, almeno nelle clausole d), c) ed l), con le previsioni che la Banca centrale ha ritenuto essere anticoncorrenziali, e cio’ dovrebbe comportare la nullita’ dell’intero contratto, in quanto stipulato “a valle” dell’intesa contraria alla concorrenza.
Il provvedimento della Banca d’Italia, benche’ di qualche mese anteriore rispetto al contratto in esame, dovrebbe essere ugualmente applicato; e la mancata considerazione di tutti gli elementi qui riportati determina, secondo i ricorrenti, quell’omesso esame di un fatto decisivo censurabile col ricorso per cassazione. La nullita’ della fideiussione sarebbe totale e non parziale (anche se il motivo in esame da’ conto di pronunce non tutte concordi nella giurisprudenza di questa Corte); e comunque, trattandosi di un collegamento funzionale nell’interesse esclusivo della Banca, che e’ il soggetto garantito, sarebbe da ritenere che sia a carico di quest’ultima l’onere di dimostrare che la fideiussione sarebbe stata ugualmente sottoscritta anche in assenza di quelle clausole.
6. Il terzo e il quarto motivo sono evidentemente da esaminare insieme in quanto, pur nella loro diversita’, pongono i medesimi problemi.
6.1. Si tratta, com’e’ noto, di una questione molto complessa che in questa sede, peraltro, non e’ necessario affrontare funditus, essendo sufficiente compiere alcuni brevi richiami alla giurisprudenza di questa Corte in argomento, posto che, come subito si vedra’, la corte di merito si e’ fermata nella sentenza impugnata ad un punto anteriore, sul quale ultimo solamente il Collegio e’ chiamato in realta’ a pronunciarsi.
Il problema dei c.d. contratti a valle delle intese anticoncorrenziali e’ stato oggetto di alcune pronunce, in parte citate in ricorso, le quali si sono occupate anche del provvedimento 2 maggio 2005, n. 55 della Banca d’Italia richiamato dagli odierni ricorrenti. Devono essere menzionate, in particolar modo, le sentenze 12 dicembre 2017, n. 29810, 22 maggio 2019, n. 13846, e 26 settembre 2019, n. 24044.
La sentenza n. 29810 del 2017 ha stabilito, tra l’altro, che l’esistenza di un accordo lesivo della concorrenza influisce anche su un contratto (come nel nostro caso) stipulato prima dell’accertamento dell’intesa anticoncorrenziale da parte dell’Autorita’ indipendente preposta alla regolazione o al controllo di quel mercato (anche in quel caso si trattava della Banca d’Italia).
La successiva sentenza n. 13846 del 2019 ha insistito molto sulla necessita’ di accertare che le clausole contrarie alla concorrenza siano state effettivamente inserite nel singolo contratto, potendo darsi che l’ABI non le abbia recepite e che, tuttavia, la singola Banca l’abbia fatto.
Va poi tenuta presente la sentenza n. 24044 del 2019 la quale ha rilevato che dall’esistenza dell’intesa anticoncorrenziale deriva la nullita’ dei contratti c.d. a valle, ma non necessariamente dell’intero contratto, bensi’ solo delle clausole che ne costituiscano applicazione (articolo 1419 c.c.).
In questo senso e’ stata poi la decisione delle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza 30 dicembre 2021, n. 41994), secondo cui i contratti di fideiussione “a valle” di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorita’ Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con la la L. n. 287 del 1990, articolo 2, comma 2, lettera a), e articolo 101 del TFUE, sono parzialmente nulli, ai sensi dell’articolo 2, comma 3, della legge citata e dell’articolo 1419 c.c., in relazione alle sole clausole che riproducono quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata (perche’ restrittive, in concreto, della libera concorrenza), salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volonta’ delle parti.
6.2. Quanto si e’ appena detto e’ necessario per inquadrare il problema posto nei due motivi in esame entro una cornice giuridicamente corretta.
Come si e’ anticipato, pero’, l’unica questione sulla quale questa Corte e’ oggi chiamata a pronunciarsi consiste nello stabilire se sia o meno corretta la decisione impugnata nella parte in cui, ritenendo che l’eccezione relativa alla presunta nullita’ della garanzia per violazione della normativa antitrust fosse stata posta tardivamente, l’ha dichiarata inammissibile.
E’ opportuno ricordare, in proposito, che le Sezioni Unite di questa Corte si sono occupate ampiamente del problema della rilevabilita’ d’ufficio delle nullita’ contrattuali (sentenza 12 dicembre 2014, n. 26242), ed e’ alla luce dei principi affermati in quella sede che deve essere letta e confermata (sia pur con le precisazioni che seguiranno) la motivazione della Corte torinese.
In quella sentenza e’ stato affermato, tra l’altro, che nel giudizio di appello ed in quello di cassazione il giudice, in caso di mancata rilevazione officiosa in primo grado di una nullita’ contrattuale, ha sempre facolta’ di procedere ad un siffatto rilievo. Questo principio, pero’, deve essere applicato tenendo presenti le regole generali del processo civile e la relativa tempistica, onde evitare che l’esercizio di un potere officioso consenta alle parti di rimettersi in pista -per cosi’ dire- quando i fatti costitutivi del lamentato vizio negoziale da esaminare ex officio avrebbero potuto e dovuto essere tempestivamente allegati, onde consentire al giudice la necessaria valutazione in diritto. Qualora i fatti costitutivi della dedotta nullita’ negoziale non risultino gia’ allegati in toto dalla parte che la invoca successivamente, difatti, non e’ consentito al giudice, in qualsiasi stato e grado del processo, procedere d’ufficio a tali accertamenti, la rilevabilita’ officiosa della nullita’ essendo circoscritta alla sola valutazione in iure dei fatti gia’ allegati.
Nel caso in esame, la Corte torinese e’ correttamente pervenuta alla decisione di inammissibilita’ sul rilievo che l’accertamento sulla fondatezza o meno dell’eccezione di nullita’ (proposta in appello in via principale, ma destinata a convertirsi in eccezione in senso lato anche al di la’ dei limiti e delle preclusioni processuali ormai maturate) si fondava su circostanze di fatto (“quantomeno, la conformita’ al “modello ABI” e la produzione del relativo “modello””) che le parti avrebbero dovuto introdurre gia’ in primo grado. In altri termini, poiche’ si parla, nella specie, della presunta nullita’ di una clausola contrattuale che discenderebbe dalla conformita’ del contratto rispetto al modello redatto dall’ABI e contenente le clausole oggetto del provvedimento sanzionatorio della Banca d’Italia, gli odierni ricorrenti avrebbero dovuto allegare i fatti costitutivi funzionali a fondare la legittimita’ di una successiva rilevazione officiosa della nullita’ pur in assenza di una tempestiva domanda formulata in tal senso, poiche’ tanto il contratto in contestazione, quanto la modulistica applicata e la Delib. della Banca d’Italia suindicata erano note e a disposizione delle parti.
La quaestio nullitatis posta dagli odierni ricorrenti in comparsa conclusionale di appello, pur astrattamente proponibile al di la’ delle preclusioni ormai maturatesi, avrebbe, si’, obbligato il giudice a rilevarne l’eventuale fondatezza (con conseguente applicazione del disposto dell’articolo 101 c.p.c., comma 2,), ma sempre che, ed a condizione che, i fatti costitutivi del vizio negoziale fossero stati gia’ tempestivamente allegati, onde legittimare una decisione fondata su quegli stessi fatti e soltanto su quelli, non essendo piu’ consentito al giudice di appello alcun accertamento fattuale se non in violazione del principio del contraddittorio.
Risulta, pertanto, conforme a diritto (e rispettosa dei principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte con la gia’ ricordata sentenza n. 26242 del 2014) la decisione oggi impugnata nella parte in cui viene evidenziato come sia mancata, nella specie, l’allegazione di un fatto decisivo, per non avere gli odierni ricorrenti tempestivamente prodotto (in realta’, mai prodotto), davanti alla Corte d’appello -posto che anche in sede odierna nulla dicono sul punto- il modello ABI, allo scopo di consentire il dovuto confronto con il contratto di fideiussione stipulato.
Non giova ai ricorrenti il richiamo alla sentenza 9 gennaio 2013, n. 350 -secondo cui la nullita’ delle clausole che prevedono un tasso d’interesse usurario e’ rilevabile anche di ufficio, non integrando gli estremi di un’eccezione in senso stretto, bensi’ una mera difesa, che puo’ essere proposta anche in appello, nonche’ formulata in comparsa conclusionale, sempre che sia fondata su elementi gia’ acquisiti al giudizio- proprio perche’ tale pronuncia non fa che confermare che deve trattarsi di questione fondata su elementi gia’ acquisiti. In altri termini, gli elementi di fatto che sono necessari al giudice per esaminare la fondatezza dell’eccezione di nullita’ devono essere tempestivamente allegati e provati, altrimenti determinandosi la situazione paradossale per cui il rilievo anche officioso finirebbe col tradursi in un meccanismo di aggiramento delle regole sul contraddittorio e di correttezza processuale (in tal senso sono anche, benche’ riguardanti fattispecie diverse, la sentenza 5 aprile 2022, n. 10930, e l’ordinanza 19 ottobre 2022, n. 30885).
Correttamente, dunque, la Corte torinese ha dichiarato l’inammissibilita’ dell’eccezione di nullita’ della fideiussione.
Ragione per cui sono privi di fondamento i motivi terzo e quarto del ricorso.
7. Con il quinto motivo di ricorso i ricorrenti lamentano, in riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1 n. 3), la violazione e falsa applicazione dell’articolo 1956 c.c., anche alla luce dei principi di buona fede contrattuale e di quelli desumibili dall’articolo 1461 c.c., con conseguente nullita’ della sentenza.
Deducono di aver fatto presente fin dal primo grado che il comportamento della (OMISSIS), in quanto assunto in violazione delle regole dell’articolo 1956 c.c., comporta la liberazione dei fideiussori. Ed infatti la comunicazione della (OMISSIS) del 16 febbraio 2011, richiamata in sentenza, ha di fatto concesso alla debitrice principale una nuova apertura di credito pari ad Euro 200.000, in aggiunta rispetto alla precedente apertura di credito ed al castelletto per la somma globale di Euro 300.000. Nella sentenza d’appello, osservano i ricorrenti, viene accolta una concezione del termine “fare credito al terzo” che non risponde alla previsione di legge. Non e’ esatto, infatti, che quell’apertura di credito aveva soltanto coperto le somme utilizzate extrafido, perche’ si e’ trattato di un’attivita’ che ha finito per aumentare l’esposizione debitoria dei fideiussori. Richiamate alcune pronunce di questa Corte in materia, i ricorrenti rilevano che la corretta applicazione dei relativi principi avrebbe imposto ai giudici di merito di riconoscere che l’operazione del 16 febbraio 2011 non poteva avere una valenza neutra, posto che la posizione dei garanti si era comunque aggravata.
Aggiungono poi alcune ulteriori considerazioni. Da un lato, il fatto che non avrebbe alcun rilievo la circostanza per cui “il precedente affidamento concesso ammontava comunque a un importo superiore a quello della garanzia prestata dagli esponenti”, posto che l’articolo 1956, comma 1, cit. non prevede alcuna disposizione in tal senso e, ad ogni modo, la mancata richiesta di autorizzazione al fideiussore prima della concessione dell’apertura di credito sarebbe contraria alla buona fede. Da un altro lato, poi, il passaggio della motivazione della sentenza impugnata secondo cui l’affidamento ulteriore del 2011 non rappresentava l’apertura di un nuovo credito si risolverebbe in una petizione di principio, tale che la sentenza sarebbe sul punto nulla per mera apparenza della motivazione.
8. Con il sesto motivo di ricorso lamentano, in riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1 n. 3), la violazione e falsa applicazione dell’articolo 1956 c.c., anche alla luce dei principii di cui agli articoli 1341 e 1375 c.c., nonche’ in applicazione delle regole dell’articolo 2729 c.c. sulle presunzioni semplici.
Anche questo motivo ruota intorno al problema dell’aggravamento della posizione dei fideiussori.
In particolare, i ricorrenti censurano la sentenza nella parte in cui ha riconosciuto rilevanza alla clausola contrattuale che prevede, a carico dei fideiussori, un onere di informazione sulle condizioni patrimoniali del debitore principale e nella parte in cui ha dato rilievo alla sussistenza dei rapporti familiari per escludere la violazione dell’articolo 1956 citato. La clausola ora ricordata, osservano i ricorrenti, viene a creare un ingiusto squilibrio a favore del contraente forte, cioe’ la Banca, e proprio per tale sua qualita’ dovrebbe considerarsi vessatoria e percio’ invalida, nella specie, per mancanza della doppia sottoscrizione. L’errore di interpretazione che i ricorrenti rivolgono alla Corte d’appello non risulta neppure superabile per la ragione, indicata in sentenza, secondo cui l’applicazione dell’articolo 1956 cit. deve essere esclusa per il fatto che i fideiussori erano comunque a conoscenza delle difficolta’ economiche della debitrice principale. La doglianza concerne, a questo punto, la giurisprudenza di questa Corte che ha ritenuto inapplicabile l’articolo 1956 cit. e la conseguente liberazione del fideiussore se questi sia anche socio amministratore della societa’ debitrice principale. Censurando quest’orientamento, e richiamando pronunce di segno contrario, i ricorrenti rilevano che se -come nel caso di specie- il fideiussore e’ soltanto socio e non anche amministratore della societa’, non si potrebbe ragionevolmente sostenere che il medesimo sia informato della situazione patrimoniale della societa’, e, di conseguenza, delle sue difficolta’ economiche.
Il rispetto delle regole della buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c. esige, in altre parole, che la liberazione del fideiussore non possa essere esclusa sulla base “di una mera presunzione di conoscenza”, in capo ai soci, delle condizioni patrimoniali della societa’.
La corte di merito nella sentenza impugnata, del resto, si e’ asseritamente limitata a valutare la situazione personale e il vincolo familiare dei fideiussori, senza specificare per quale ragione, in effetti, essi dovessero essere a conoscenza delle difficolta’ economiche della debitrice principale.
9. I due motivi, benche’ tra loro diversi, possono essere trattati congiuntamente, anche se con le dovute specificazioni, in quanto ruotano entrambi intorno alla prospettata violazione dell’articolo 1956 c.c., che ne costituisce il fulcro.
La tesi fondamentale dei ricorrenti e’ che la Corte d’appello avrebbe compiuto un’errata applicazione di tale disposizione, non valutando in modo corretto il comportamento tenuto dalla Banca la quale aveva, in sostanza, indebitamente aggravato la posizione dei fideiussori; e simile errore sarebbe costruito anche su di una scorretta valutazione delle presunzioni. Il sesto motivo, in particolare, contiene anche una censura rivolta, sia pure in modo indiretto, verso la giurisprudenza di questa Corte relativa all’interpretazione dell’articolo 1956 cit. in tema di obblighi del fideiussore.
9.1. I motivi sono entrambi infondati, per le ragioni che si vanno adesso ad indicare in relazione alle molteplici censure formulate.
E’ opportuno innanzitutto ricordare che la giurisprudenza di questa Corte ha gia’ affermato, con un principio al quale con l’odierna pronuncia il Collegio intende dare continuita’, che il fideiussore il quale intenda far valere l’esclusione della propria responsabilita’ ai sensi dell’articolo 1956 cit. deve provare la sussistenza delle condizioni ivi indicate (sentenze 22 maggio 2003, n. 8040, e 17 novembre 2016, n. 23422, ordinanza 25 luglio 2022, n. 23065). Egli, cioe’, deve dimostrare che, successivamente alla prestazione della fideiussione per obbligazioni future, il creditore abbia fatto credito al terzo, senza la sua autorizzazione, pur essendo consapevole dell’intervenuto peggioramento delle sue condizioni economiche.
Detto cio’, va esaminato il punto riguardante la presunta violazione dell’articolo 1956 cit. in conseguenza dell’aggravamento della posizione del debitore dovuto alla nuova apertura di credito per la somma di Euro 200.000 concessa dalla (OMISSIS), come da lettera del 16 febbraio 2011.
In relazione a questo aspetto, la censura formulata nel quinto motivo contiene un profilo di inammissibilita’ la’ dove si risolve nel tentativo di ottenere una diversa valutazione dei fatti di causa, posto che la Corte d’appello ha esaminato la questione con ampiezza di argomenti, illustrando le ragioni per le quali l’indebitamento della societa’ (OMISSIS) non era dipeso “dalla concessione di nuovo credito avvenuta nel 2011, ma dal superamento dei limiti del fido del 2008”. Nel ragionamento della Corte torinese, cioe’, la presunta violazione dell’articolo 1956 c.c. non e’ sussistente, perche’ gli affidamenti del 2011 sono serviti solo a coprire il precedente indebitamento extrafido.
Ma in realta’, l’assenza di violazione dell’articolo 1956 cit. e’ stata desunta dalla Corte d’appello da una serie di ulteriori ragioni, gia’ in precedenza richiamate, che esigono una valutazione globale.
Ed infatti la sentenza impugnata ha messo in luce almeno tre decisive argomentazioni, che resistono alle censure proposte in questa sede: 1) l’esistenza di una clausola contrattuale (la clausola “b”), secondo cui i garanti erano gravati di un obbligo informativo;
2) l’esistenza di vincoli familiari e societari che non rendevano credibile la circostanza che i fideiussori non fossero edotti delle reali condizioni patrimoniali della societa’ debitrice; 3) il fatto che, essendo l’esposizione dei garanti contenuta nella cifra di Euro 230.000, la situazione debitoria della societa’ (OMISSIS) aveva oltrepassato detta soglia gia’ prima dell’ulteriore concessione di credito del 2011, di talche’ la successiva apertura di credito era da considerare sostanzialmente “irrilevante”.
9.2. Giova ricordare, a questo proposito, che la giurisprudenza di questa Corte ha gia’ affrontato buona parte delle questioni poste con i motivi in esame, emettendo una serie di pronunce che e’ opportuno qui richiamare.
In relazione alla clausola che prevede l’obbligo di informazione a carico del fideiussore, e’ da ribadire, innanzitutto, che questa Corte ne ha gia’ riconosciuto l’ammissibilita’, a prescindere dal fatto che essa si affianchi o meno alla rinuncia ad avvalersi dell’articolo 1956 cit., a condizione che l’istituto bancario tenga, nel corso del rapporto, un comportamento improntato ai principi di buona fede e correttezza (v. in tal senso le sentenze 20 luglio 1989, n. 3385, e 28 luglio 1999, n. 8176).
La Corte d’appello, tra l’altro, ha avuto cura di precisare che detta clausola non puo’ essere interpretata quale rinuncia ad avvalersi dell’articolo 1956 c.c.; per cui, non comportando la medesima una limitazione di responsabilita’ per la banca, la stessa non e’ da considerare vessatoria. Tale ragionamento e’ condiviso da questa Corte e consente di ritenere non fondata la censura, prospettata espressamente nel sesto motivo di ricorso, per cui la clausola in questione e’ nulla per mancanza della doppia sottoscrizione ai sensi dell’articolo 1341 c.c., comma 2.
9.3. Quanto, invece, al punto dei legami familiari e societari esistenti tra la debitrice principale e i fideiussori odierni ricorrenti, le censure prospettate nel sesto motivo sono prive di fondamento.
Questa Corte ha affermato, in proposito, che la banca che concede finanziamenti al debitore principale pur conoscendone le difficolta’ economiche, fidando nella solvibilita’ del fideiussore, senza informare quest’ultimo dell’aumentato rischio e senza chiederne la preventiva autorizzazione, incorre in violazione degli obblighi generici e specifici di correttezza e di buona fede contrattuale.
La mancata richiesta di autorizzazione non puo’ tuttavia configurare una violazione contrattuale liberatoria se la conoscenza delle difficolta’ economiche del debitore principale e’ comune, o dev’essere presunta tale, come nell’ipotesi in cui debitrice sia una societa’ nella quale il fideiussore ricopre la carica di amministratore (sentenza 21 febbraio 2006, n. 3761).
Si e’ anche affermato che l’autorizzazione di cui all’articolo 1956 c.c. non e’ configurabile come accordo a latere del contratto bancario cui la garanzia accede, sicche’ non e’ al riguardo richiesta la forma scritta ad substantiam, potendo essere ritenuta anche implicitamente e tacitamente concessa dal garante, in applicazione del principio di buona fede nell’esecuzione dei contratti, laddove emerga perfetta conoscenza, da parte sua, della situazione patrimoniale del debitore garantito (in quel caso, la conoscenza delle condizioni economiche doveva ritenersi comune a debitore e fideiussore, ovvero presunta in ragione del vincolo coniugale tra essi esistente e dello stato di loro convivenza: cosi’ la sentenza 2 marzo 2016, n. 4112).
Ora, se e’ vero che l’ordinanza 5 ottobre 2021, n. 26947, ha affermato di non poter attribuire valenza di prova presuntiva -ai fini della specifica autorizzazione richiesta dall’articolo 1956 cit.- alla sola esistenza di un rapporto di parentela o di affinita’, e’ opportuno ricordare che e’ stato anche ribadito come l’onere di richiedere quell’autorizzazione non sussista quando nella stessa persona coesistono la qualita’ di fideiussore e quella di legale rappresentante della societa’ debitrice principale (ordinanza 23 marzo 2017, n. 7444; ma v. gia’, in ordine ai rapporti sociali, la piu’ risalente sentenza 3 agosto 1995, n. 8486).
Ne’ la sentenza 22 ottobre 2010, n. 21730, correttamente richiamata dai ricorrenti, puo’ condurre ad un esito diverso da quello fissato nella sentenza impugnata.
In quest’ultima, in definitiva, la corte di merito ha compiuto una valutazione globale dei fatti, richiamando a sostegno della propria decisione la coesistenza sia di legami familiari che societari e considerando complessivamente corretto il comportamento tenuto dalla (OMISSIS), la quale aveva motivi piu’ che ragionevoli per ritenere che i fideiussori fossero pienamente a conoscenza della reale situazione debitoria della societa’ debitrice principale. Il che porta ad escludere sia la violazione del principio di buona fede sia quella delle regole sulla prova presuntiva, correttamente applicate dalla Corte di merito.
9.4. Occorre poi rilevare, a chiusura del ragionamento svolto, come i due motivi di ricorso ora in esame non si confrontino affatto con l’ulteriore affermazione della Corte torinese, gia’ sopra richiamata, secondo cui l’obbligazione fideiussoria prevedeva un tetto massimo di Euro 230.000, che e’ stato rispettato in sede di emissione del decreto ingiuntivo, a fronte di un’esposizione debitoria ben maggiore della societa’ (OMISSIS). E poiche’ il debito di quest’ultima aveva gia’ raggiunto e superato la soglia degli Euro 230.000 ben prima dell’ulteriore erogazione del febbraio 2011, e’ palese che non e’ dato comprendere quale sia il danno derivato ai garanti da quest’ultima operazione, posto che il debito gravante su di loro non poteva comunque eccedere il limite della somma garantita.
E tale argomentazione -e’ bene rilevarlo- e’ gia’ di per se’ sufficiente a rigettare il quinto e il sesto motivo di ricorso.
10. Con il settimo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano, in riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1 n. 3), la violazione e falsa applicazione degli articoli 1362, 1363 e 1366 c.c. in tema di interpretazione dei contratti.
Censurano, specificamente, la sentenza per avere la corte di merito ivi affermato trattarsi nel caso di specie non di fideiussione ma di contratto autonomo di garanzia.
La motivazione della sentenza, definita come parziale, e’ asseritamente limitata al richiamo della previsione dell’obbligo di pagamento a prima richiesta e senza eccezioni, non considerandosi che nel contratto era previsto (clausola a) anche l’obbligo di pagamento da parte dei fideiussori nel termine indicato dai contratti regolanti il credito della Banca. In tal modo, cioe’, la Corte d’appello ha asseritamente trascurato il richiamo contrattuale al collegamento tra l’adempimento del fideiussore e i termini dell’adempimento dell’obbligazione principale; il che ha falsato l’intera attivita’ di interpretazione del contratto secondo le regole della buona fede.
10.1. Il motivo e’ in parte inammissibile e in parte privo di fondamento.
Il Collegio richiama, innanzitutto, che la costante giurisprudenza di questa Corte e’ nel senso che l’attivita’ di interpretazione del contratto costituisce un compito tipico rimesso al giudice di merito, non potendo detta interpretazione essere contestata in sede di legittimita’ al solo scopo di invocarne una diversa e a se’ piu’ favorevole. E’ stato di recente ribadito, infatti, in linea con un orientamento pacifico, che, poiche’ l’accertamento della volonta’ delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in un’indagine di fatto affidata al giudice di merito, il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui all’articolo 1362 c.c. e ss. non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma e’ tenuto, altresi’, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti; non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (cosi’ l’ordinanza 9 aprile 2021, n. 9461, in linea, ex plurimis, con le precedenti ordinanze 15 novembre 2017, n. 27136, e 28 novembre 2017, n. 28319).
Da tale principio consegue che la censura prospettata presenta un profilo di inammissibilita’, in quanto e’ volta a sollecitare in questa sede una diversa valutazione di merito, consistente nel negare validita’ alla ricostruzione della volonta’ delle parti compiuta dalla Corte d’appello.
10.2. Tanto premesso, il Collegio ricorda che le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza 18 febbraio 2010, n. 3947, hanno segnato i confini che distinguono la fideiussione dal contratto autonomo di garanzia. Senza necessita’ di addentrarsi nell’articolata e complessa motivazione di quella pronuncia, puo’ essere sufficiente nella sede odierna tenere presente i seguenti punti: 1) mentre la fideiussione e’ volta a tutelare l’esatto adempimento della medesima obbligazione principale altrui, il contratto autonomo di garanzia pone a carico del garante un’obbligazione autonoma e diversa, proprio perche’ non rivolta al pagamento del debito principale, quanto ad indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata; 2) la prestazione cui e’ tenuto il garante e’ diversa da quella cui e’ tenuto l’obbligato principale (autonomia del contratto autonomo rispetto all’obbligazione principale); 3) l’inserimento nel contratto dell’espressione a prima richiesta e senza eccezioni dovrebbe orientare l’interprete verso la stipulazione di un contratto autonomo di garanzia, il quale comporta di regola la non applicabilita’ dell’articolo 1957 c.c. e si caratterizza per l’assenza dell’elemento dell’accessorieta’, ferma restando l’esperibilita’ dell’exceptio doli.
Tale orientamento e’ stato seguito costantemente dalla giurisprudenza successiva (v., tra le altre, l’ordinanza 22 novembre 2018, n. 30181, la sentenza 22 novembre 2019, n. 30509, e l’ordinanza 3 novembre 2021, n. 31313), per cui deve essere assunto come un punto di partenza dal quale non si puo’ prescindere ed al quale con l’odierna pronuncia il Collegio intende dare convinta continuita’.
La Corte torinese ha fatto buon governo di questi principi e, ricordando che il contratto prevede l’obbligo di rimborso da parte dei garanti non solo a prima richiesta (con clausola doppiamente sottoscritta), ma anche senza eccezioni, ne ha tratto la corretta conclusione secondo cui da questi elementi deriva l’autonomia della garanzia.
Le argomentazioni dei ricorrenti non sono in grado di superare tale affermazione, ne’ possono indurre a diversa conclusione i richiami ad una presunta (ma indimostrata) lesione del principio di buona fede (articolo 1366 c.c.).
11. In conclusione, il ricorso va rigettato.
A tale esito segue la condanna dei ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del Decreto Ministeriale 13 agosto 2022, n. 147, sopravvenuto a regolare i compensi professionali.
Sussistono inoltre le condizioni di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater, per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 13.600, di cui Euro 200 per esborsi, oltre a spese generali ed accessori come per legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater, da’ atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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